Se questo è solo l’inizio
Pioggia di bombe nella notte contro Gaza, e inizio dell’operazione terrestre israeliana
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Pioggia di bombe nella notte contro Gaza, e inizio dell’operazione terrestre israeliana
• – Aldo Sofia
Un sondaggio indica che metà della popolazione dello Stato ebraico è in questo momento contrario all'attacco terrestre contro Gaza; la preoccupazione per gli oltre duecento ostaggi prigionieri di Hamas; la repressione del dissenso soprattutto nella minoranza araba
• – Aldo Sofia
Contrariamente al sentimento prevalente, molti dei superstiti dei massacri del 7 ottobre e parenti degli uccisi e dei sequestrati si oppongono alla rappresaglia su Gaza
• – Redazione
A qualche giorno dal voto per le federali e in prospettiva dei prossimi appuntamenti con le urne i partiti fanno i conti, fra di loro e al proprio interno
• – Enrico Lombardi
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
In mostra nelle Biblioteche cantonali di Bellinzona e Lugano le pubblicazioni di Pulcinoelefante e Henry Beyle, due piccole case editrici i cui “contenitori” contano quanto i contenuti
• – Michele Ferrario
La grande evasione fiscale continua in tutto il mondo: l'anno scorso le multinazionali hanno nascosto 1.000 miliardi di dollari nei paradisi fiscali. Nel 2024 cambierà davvero molto con l'arrivo della minimum tax nei paesi OCDE?
• – Aldo Sofia
A proposito di delitti e di pene nelle aule e di un recente intervento sulla scuola del filosofo Umberto Galimberti
• – Adolfo Tomasini
Elezioni, crisi politiche ed un ridotto impatto del sostegno internazionale, a cominciare da quello degli USA, stanno mettendo a dura prova la resistenza Ucraina
• – Redazione
Che cosa si sottintende quando, soprattutto in alcuni ambienti intellettuali di sinistra, si parla di decolonizzazione a proposito di Israele?
• – Redazione
Pioggia di bombe nella notte contro Gaza, e inizio dell’operazione terrestre israeliana
Quante altre vittime palestinesi, e feriti, e macerie; quante altre possibilità rimarrebbero di riportare a casa gli oltre duecento ostaggi israeliani prigionieri di Hamas nei tunnel costruiti in oltre vent’anni sotto la Striscia; quanti ulteriori rischi si sommano e rendono meno ipotetico il pericolo che l’incendio debordi e devasti tutta la regione; quanto il realizzarsi di una eventualità del genere inciderebbe drammaticamente sui già precari equilibri geo-strategici internazionali dopo che la Casa Bianca aveva ammonito Gerusalemme a “non ripetere gli errori americani” dopo l’11 settembre (guerre in Iraq e Afghanistan). A questo già siamo dopo soltanto venti giorni di guerra.
Mentre l’ONU e altre organizzazioni umanitarie segnalano con crescente allarme che nei 360 km quadrati di Gaza la situazione umanitaria è prossima al definitivo collasso. Non bastano i venti Tir al giorno che l’Egitto, ma anche Israele (che ha voce in capitolo anche al Cairo in base agli accordi di sicurezza con il dittatore Al Sisi), hanno finora snocciolato per soccorrere una popolazione di due milioni di gazawi allo stremo. Ora Tsahal promette che insieme ai suoi fanti farà entrare a Gaza anche aiuti e medici. Esattamente dove? Nella fascia settentrionale rasa al suolo da tre settimane di bombardamenti.
Quello che è stato definito il “conflitto fra due legittimi diritti” – degli israeliani e degli arabi palestinesi di vivere in sicurezza e pace in altrettante riconosciute entità statali – sembra ancor più destinato a procedere verso un irrimediabile e irrecuperabile pozzo nero. Per un impressionante intreccio di responsabilità, immediate e no. Quelle di Hamas, per aver pianificato e realizzato il 7 ottobre una carneficina di civili israeliani compatibile unicamente con i peggiori metodi del terrorismo (per molti motivi Hamas non è l’Isis, ma la mattanza ha ricordato i metodi dei tagliagole dello Stato Islamico).
La responsabilità del governo Israeliano di Netanyahu, il più destrorso, annessionista, razzista nella storia dello Stato ebraico (con conseguente grave lacerazione della società nazionale), a cui si aggiunge l’occupazione di oltre mezzo secolo della Cisgiordania e l’umiliazione di un’Autorità Nazionale Palestinese ora contestata anche fra gli abitanti della West Bank. E quella di una comunità internazionale che ha lasciato fare, ha praticamente delegato la soluzione a protagonisti locali in posizione di forza asimmetrica, comunque visibilmente incapaci o disinteressati a cercare una via d’uscita. Ha lasciato marcire la situazione e consentito l’accensione di nuove micce, convinta che il dramma si sarebbe risolto da sé, ma senza immaginare o dire in che modo.
Risveglio brutale. Perché oltretutto dalle viscere delle reazioni nel mondo arabo e oltremare si manifesta anche l’antica bestia dell’antisemitismo. Persino il dubbio della stessa sopravvivenza dello Stato ebraico.
Quella che l’Iran della Rivoluzione sciita – e del massacro delle sue donne in lotta per la democrazia – continua a definire “l’entità sionista”. Teheran – aspirante potenza atomica – ispiratrice, co-regista, finanziatrice di un disegno a cui Hamas si è volontariamente prestato: incurante della punizione collettiva che sarebbe piombata (come già in passato) sui suoi ‘sudditi’ di Gaza, proteso alla conquista della leadership politica su tutto il popolo palestinese, partecipe dell’offensiva contro le monarchie del Golfo – Arabia Saudita in testa – che hanno “osato” aprire il dialogo con Israele.
In un simile scenario, non poteva mancare chi da questa tragica crisi vuol trarre il massimo vantaggio. La Russia di Putin, fiancheggiata dalla Cina di Xi. Al Cremlino viene così accolto l’inviato di Hamas, e non basta più il ragionevole e immediato riconoscimento moscovita dei diritti palestinesi. Il presidente russo mette tra parentesi la sua feroce lotta all’islam politico, quello che l’aveva guidato nella carneficina in Cecenia e inizialmente indotto (prima di rispolverare la narrazione imperial-zarista-stalinista) a collaborare con l’Occidente nella lotta al terrorismo jihadista internazionale. Più astutamente prudente, la Cina non apre le porte della Città Proibita ai jihadisti: si limita a solidarizzare, per tenere in ombra la sua repressione delle popolazioni musulmane dell’Impero di Mezzo, gli Uiguri dello Xinijang.
Il calcolo di entrambi è comunque evidente: inserire la contestazione anti-israeliana e anti-americana in quel “Sud Globale” che dovrà essere poi attivamente cooptato dal tandem russo-cinese nella sfida politica ed economica, militare e ideologica contro l’Occidente. Predicazione che non lascia indifferente un Vicino Oriente, Israele a parte, in cui non si sono sciolti i risentimenti contro un colonialismo europeo che ridisegnò a proprio vantaggio e col righello della Sykes-Picot (quando Regno Unito e Francia si spartirono l’eredità dello sconfitto impero ottomano dopo la prima guerra mondiale) i nuovi confini di tutta quella regione, gran serbatoio petrolifero. Non per nulla, proprio promettendo la cancellazione di quell’eredità terminò il suo primo discorso nella moschea di Mosul un tale Abu-Bakr Al Baghdadi, primo auto-proclamato neo-califfo dello Stato Islamico.
Ragioni anche antiche, dunque, che possono sembrare lontane marginali o intempestive rispetto alla tragicità delle ultime settimane, addirittura delle ultime ore. Ma la cui evocazione è determinante per comprendere quanto siano lunghe e diversificate e molteplici le radici dell’odio. Delle paure. Delle smemoratezze. Degli inganni. Di cui le principali vittime si contano oggi nel quadrilatero della Palestina storica e insanguinata.
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