Un’inarrestabile spirale di volgarità

Un’inarrestabile spirale di volgarità

Imperversano in Italia le polemiche intorno a presunti tweet volgari postati una decina d’anni fa da Gino Cecchettin, ospite domenica sera a “Chetempochefa”


Enrico Lombardi
Enrico Lombardi
Un’inarrestabile spirale di volgarità

Da giorni e giorni, in Italia (e non solo) non si parla d’altro: il caso dell’uccisione di Giulia Cecchettin, ennesimo palese e terribile caso di femminicidio, è diventato il motore del meglio e del peggio di cui appare capace la nostra cultura contemporanea. Si tratta infatti da un lato di un “caso” che si è fatto emblematico nel proporre, in tutta la sua tremenda brutalità, la necessità di affrontare un problema come quello dell’annientamento femminile impugnato dalla secolare cultura patriarcale. Un “caso che impone di parlarne per agire, per smuovere le coscienze ed indurre alla denuncia, sacrosanta, di quanto troppo spesso avviene tragicamente nascosto fra le mura domestiche e rimane sottaciuto, come se a rivelarlo ci si dovesse vergognare, si passasse per delatori (e delatrici).

D’altro canto, questa necessità di fare del caso della morte di Giulia l’occasione decisiva per affrontare il dibattito in termini concreti, iniziando un’operazione di profonda revisione culturale e sociale di molti aspetti del vivere le relazioni umane (iniziando dalla sua componente maschile), si sta tristemente trasformando nell’ennesima gazzarra mediatica, che parte come ormai consuetudine dalla cloaca social del regno degli haters, odiatori seriali pronti a dare del loro peggio H24, per diffondersi rapidamente su tutti i giornali e siti, pronti a riprendere e sviluppare ipotesi, illazioni, rivelazioni non importa se vere o presunte intorno alla figura del padre di Giulia, Gino Cecchettin.

Insomma, quest’uomo, che nel giro di un anno ha vissuto prima la morte della moglie e qualche giorno fa quella di una figlia, l’uomo che al funerale di Giulia, con il suo discorso, ha impartito al mondo, sommessamente, nel dolore più estremo, un esempio raro di equilibro, oggi è bersagliato dal dileggio di chi rivanga suoi presunti post “volgari” di una decina d’anno fa su Twitter (X), e dalla riprovazione di giornalisti autoinvestitisi da detentori della morale, per stigmatizzare la sua partecipazione televisiva come ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”.

Un evento che può legittimamente annientare la lucidità di chiunque, qual è la morte di chi si ama,  Gino Cecchettin l’ ha finora saputo trasformare in un perentorio invito al cambiamento e alla riflessione, senza una sola parola fuori posto, senza una minima richiesta di ricorso ad una giustizia sommaria, fondata sulla vendetta. Eppure c’è chi non se ne fa una ragione, e nascosto nel suo ignobile anonimato inizia a vomitare su quest’uomo accuse di presunte azioni che ne metterebbero in discussione la moralità.

Nel suo primo intervento, durante la trasmissione di Fazio, parlando dell’”avventura” umana che sta vivendo, Cecchettin dice che si tratta di un evento che lo interroga, che lo ha indotto, per prima cosa, a chiedersi dove lui avesse potuto sbagliare.

Mentre, intorno a lui, è tutto un proliferare di gente che non sbaglia mai e di tesi, sospetti e verità “scomode”, che assolutamente non si possono sottacere, in nome della libertà e completezza di informazione, dando la stura al più becero dei caravanserragli mediatici cui ormai soprattutto la stampa e la televisione italiane ci stanno abituando, Gino Cecchettin è quell’uomo che alla fine dell’incontro (naturalmente criticatissimo) con Fabio Fazio (naturalmente criticatissimo) invita gli uomini a saper dire “Ti amo”.

Due parole centrali per avviare qualsiasi discorso su un radicale cambiamento nelle relazioni personali ed affettive, che si perdono nel frastuono di chi deve per forza e per mestiere fornire la propria opinione (critica, acuta, controcorrente, scomoda) anche e soprattutto ricorrendo all’orrida procedura dei social, rincorrendone ogni spiffero, ogni cinguettìo possa sembrare capace di solleticare i click in internet come in radio o tv.

Così, dei presunti “tweet” definiti “volgari”, scritti (forse) dieci anni fa, possono dare la stura alla propensione odierna dei media volta a scaricare tutto ciò di cui si occupano dentro un mefitico calderone di finti dibattiti, finte discussioni, finte riflessioni, che facciano effetto, finto, fino a che nessuno avrà più voglia di pensare davvero.

Un lavoro, di un certo dirompente e disgustoso giornalismo, questo sì, di una volgarità che pare irreversibile e inarrestabile, tutto dentro quel mondo “senza valori”, disumano, che si passa il tempo a deprecare. Una spirale disgustosa.

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