Il voto cruciale di Taiwan e le implicazioni internazionali
Il 13 gennaio, Taiwan è chiamata alle urne per scegliere il suo prossimo Presidente, ma la decisione degli elettori avrà un impatto sulla geopolitica e sull’economia mondiali
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Il 13 gennaio, Taiwan è chiamata alle urne per scegliere il suo prossimo Presidente, ma la decisione degli elettori avrà un impatto sulla geopolitica e sull’economia mondiali
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Il 13 gennaio, Taiwan è chiamata alle urne per scegliere il suo prossimo Presidente, ma la decisione degli elettori avrà un impatto sulla geopolitica e sull’economia mondiali
Il gigante comunista non ha mai governato l’isola democratica di 23,5 milioni di persone, ma, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina, le minacce della Cina hanno allarmato il mondo, che al momento è dipendente dai semiconduttori di Taiwan, di cui è produttore principale nel mercato globale. Un’industria essenziale nella rivalità tecnologica e militare. Taiwan è al centro della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina anche per la sua posizione geografica nell’Asia-Pacifico.
Le elezioni si svolgono in un momento di tensioni tra Pechino e Washington e tra Pechino e Taipei. La Cina ha aumentato la pressione militare per far valere le proprie rivendicazioni di sovranità sull’isola democratica, che sotto la guida della Presidente uscente Tsai Ing Wen è diventata più visibile al mondo. Lo ha detto lei stessa in una recente conferenza stampa: “Negli ultimi otto anni, Taiwan è cambiata e non è più dimenticata” ha ricordato ai giornalisti “Non provochiamo e non ci arrendiamo” ha continuato “abbiamo conquistato la fiducia della comunità internazionale, dando a Taiwan quella credibilità che permette di affrontare il mondo e la Cina con fiducia e calma”.
Non ci sono dubbi che il voto di sabato prossimo sarà cruciale per il futuro dell’isola. Potrebbe consolidare la sua precaria sovranità, farla sprofondare in un conflitto con la Cina o avviarla verso l’incorporazione nel suo vicino più grande. La scelta sembra essere tra il confronto o il compromesso con Pechino.
Sono tre i candidati alla presidenza: in testa nei sondaggi è Lai Ching-te, vicepresidente del partito democratico progressista al governo (DPP), feroce difensore della sovranità di Taiwan e del sostegno degli Stati Uniti. Se molti Taiwanesi sono grati a Washington per la sua solidarietà, altri temono che l’amministrazione Biden stia perseguendo soltanto i propri interessi e non quelli di Taiwan. Le sanzioni contro l’industria cinese dei microchip, imposte l’anno scorso per esempio, hanno colpito anche i produttori taiwanesi e le aziende della catena di fornitura, che hanno molti clienti in Cina.
Per questo il sindaco di New Taipei Hou Yu-ih, candidato del Kuomintang (KMT), dice di voler proteggere Taiwan attraverso il negoziato e il dialogo. Il KMT ha mantenuto del resto i contatti con il Partito comunista; il suo ultimo presidente, Ma Ying-jeou, ha recentemente visitato la Cina proclamando che «sulle due sponde dello Stretto siamo tutti cinesi». L’opposizione vuole ridurre le tensioni ed incrementare gli scambi commerciali con la Cina a cui sono già destinate il 44% delle esportazioni taiwanesi.
Ko Wen-je, leader del partito popolare di Taiwan (TPP), si definisce invece la “terza forza” ed accusa il partito al governo di essere troppo “favorevole alla guerra”, facendo leva su una fetta della popolazione stanca della retorica dei due partiti principali, che non è bastata a risolvere l’ambiguità di Taiwan.
Malgrado le sfumature, è difficile vedere nei manifesti dei tre candidati una soluzione diversa dallo status quo, ossia da un’indipendenza di fatto, ma non formale, che, se proclamata, scatenerebbe le furie di Pechino. La Repubblica di Cina infatti, questo il nome ufficiale di Taiwan, intrattiene rapporti con oltre 70 Stati, ma solo 14 di questi la riconoscono come Stato sovrano.
Nessuno a Taiwan vuole la guerra, ha ribadito l’attuale Presidente, ma si vuole una “pace dignitosa” e un futuro che non assomigli a quello di Hong Kong, dove una silenziosa oppressione ne ha cambiato per sempre il volto.
C’è chi assicura che nemmeno Pechino voglia un conflitto armato. Il rallentamento economico del gigante asiatico e le presunte divisioni interne al partito sono fonte di grandi preoccupazioni. Xi Jinping sta cercando di mantenere le relazioni con l’Occidente, che non gli perdonerebbe un’invasione militare. Del resto la Cina “non ha fretta” e non ha bisogno di lanciare nemmeno un razzo per incorporare Taiwan: a fare paura sono possibili blocchi commerciali, ma al momento, dicono altri esperti, la Cina ha bisogno di “stabilità”. Gli scenari, la storia, la psicologia sono complicati.
Il 13 gennaio potrebbe essere il momento della verità: si capirà quanto Taiwan sia determinata a difendere se stessa, a proteggere il suo futuro e il suo stile di vita, diverso da quello del grande vicino, che ha inasprito le intimidazioni e i toni, ma di cui nessuno conosce le vere intenzioni. Strategia e tempistica cinesi saranno più chiare a seconda di come agirà di fronte al volere della popolazione Taiwanese, che con il suo voto, per la prima volta, avrà un impatto sul destino dell’intera regione e oltre.
Nell’immagine: i tre candidati alla presidenza di Taiwan
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