Come rileggere il plebiscito russo
La grande notizia è che Putin… rimane al Cremlino con un plebiscito; ma si possono fare calcoli più verosimili di quelli presentati dal potere
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La grande notizia è che Putin… rimane al Cremlino con un plebiscito; ma si possono fare calcoli più verosimili di quelli presentati dal potere
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La grande notizia è che Putin… rimane al Cremlino con un plebiscito; ma si possono fare calcoli più verosimili di quelli presentati dal potere
Tutto come previsto, o quasi. Alla fine gli “spin doctor” del Cremlino hanno riaggiustato le cifre che avevano programmato. Pretendere l’80% di partecipazione per una corsa truccata era veramente troppo e così la partecipazione finale è stata fissata a un più sobrio 74,2% (dato fornito alle ore 20.00 in punto, quando teoricamente la gente poteva ancora essere nei seggi per votare). D’altro canto si è voluto dare il senso più pieno alla parola plebiscito posizionando il “capo eterno” sulle vette dell’ 87,2% dei suffragi (10 punti in più rispetto al 2018). Certo Stalin… aveva fatto meglio, superando di netto il 90%.
Sono cifre però, per quanto fasulle, su cui si possono fare alcune prime riflessioni.
La partecipazione è stata limitata. Soltanto 7 punti in più del 2018, ma questa volta si votava su 3 giorni e in un terzo dei seggi anche elettronicamente. Facendo delle ipotesi probabilmente su un unico giorno di apertura delle urne, senza le possibilità di manipolazioni e senza pressioni di varia natura in Russia, voterebbe meno del 30% dei cittadini.
Il dato dell’87% di consenso è stato pensato nelle ultime settimane per dare un’idea di forza e unità, totale e senza tentennamenti, di un paese raccolto attorno al suo Capo. Insomma dato che l’Occidente parlerà di truffa è inutile stare a lesinare, devono aver pensato nei palazzi del potere, diamo un dato forte vicino al 90%.
Per far ciò si è dovuto cannibalizzare e umiliare gli altri candidati. Sei anni fa il candidato comunista Pavel Grudinin aveva preso l’11,9%; ora Mikhail Kharitonov si ferma a un terzo, il 4,3%. Nel 2000 Gennady Zjuganov aveva ottenuto il 29,5%. Il 17 marzo, per quanto vale, segna un’altra data storica: la fine dei comunisti in Russia in quanto forza politica di rilievo. Vladislav Davankov, il liberale militarista, su cui si è riversata per disperazione parte del voto di protesta, è stato piazzato al 3,8%. Era stato promessa ai comunisti il secondo piazzamento e così è stato. Davankov non doveva diventare motivo d’imbarazzo per il Cremlino e anche per sé stesso, trasformandosi in una involontaria e immeritata bandiera per l’elettorato “no war”. Probabilmente in tutte le grandi città europee ha preso tantissimi voti, intorno al 30%, e questo fa capire quanta voglia di alternativa o perlomeno di alternanza c’è nella società russa.
La necessità di un plebiscito è stata determinata anche dai compiti non facili che la presidenza avrà nei prossimi anni, e in questo senso va anche l’eliminazione di Alexey Navalny e l’imprigionamento di tutte le figure rappresentative dell’opposizione che si non si trovino già all’estero. Le difficoltà economiche e strutturali dovute alle sanzioni torneranno a farsi sentire e il “bene rifugio” del dollaro o dell’euro tornerà ad essere tesaurizzato dalle famiglie e dalle imprese. Ma soprattutto gli obbiettivi militari non resteranno limitati alle conquiste già realizzate. Dmitrij Medvedev parla insistentemente di Odessa e Kiev come città russe e a Putin ancora pesa la mancata conquista di Kharkov nel 2022. Il presidente rieletto ha parlato ieri sera in conferenza stampa della “necessità di creare una zona cuscinetto” perché gli ucraini non possano più attaccare il territorio russo. Quanto ampio dovrà essere questo cuscinetto per ora è un mistero ma probabilmente necessiterà una nuova mobilitazione “parziale”.
L’opposizione si è fatta vedere e ha dimostrato di volersi compattare dopo lunghi mesi di demoralizzazione. La partecipazione ai seggi all’estero è stata dappertutto straordinaria e ovunque la somma dei voti di Davankov e quelli nulli sono stati superiori alla maggioranza assoluta dei voti espressi. Anche in Russia il voto a mezzogiorno di ieri è stato visibile con code ai seggi, code più significative nelle zone periferiche e semi-periferiche delle città europee a riprova che i sostenitori dell’opposizione non sono tutti liberali del ceto medio come la propaganda dei mass media governativi vorrebbe far credere.
La strada di chi dissente non è in discesa. La repressione aumenterà ancora nei prossimi mesi e l’allargamento del conflitto non giocherà a suo favore. Tuttavia un primo passo è stato fatto: partecipare, riconoscersi, sapere di non essere soli è un piccolo passo. Ma ogni impresa comincia così. La lotta per la democrazia in Russia continua: ha una lunga tradizione dietro di sé.
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