Di Sami al Ajrami, La Repubblica
Di giornalisti rimasti in attività al Nord ne conosco non più di cinque. Il loro lavoro è diventato vitale per noi colleghi che li sentiamo tutti i giorni per avere informazioni su quello che succede in una zona tagliata fuori dal mondo. Anche loro, come tutti da Gaza City in su, patiscono la fame al punto che l’Onu ha dichiarato che andando avanti così a partire da maggio questi territori entreranno ufficialmente in uno stato di carestia. Ma continuano a lavorare per far uscire dalla Striscia più storie possibili.
Un compito che diventa ogni giorno più difficile perché, se dall’inizio della guerra di giornalisti uccisi dall’esercito israeliano se ne contano almeno 130, a chi è rimasto in vita non va molto meglio. Il rischio non è soltanto quello di diventare un nuovo nome nella lunga lista delle vittime ma anche quello di essere arrestati. Come è successo ieri al corrispondente di Al-JazeeraIsmail al Ghoul e ad almeno altri dieci colleghi di realtà minori dei quali a malapena si conoscerà mai il nome. Li hanno fermati con violenza, hanno distrutto le loro apparecchiature e le loro automobili, hanno spento la loro voce.
Gli arresti sono avvenuti nell’ambito dell’operazione militare che Israele ha condotto all’interno dell’ospedale al-Shifa di Gaza Citydurante la quale, così ha dichiarato l’esercito, sarebbe stato ucciso il capo delle operazioni di sicurezza interna di Hamas Faiq Mabhuoch. Sui motivi dell’arresto dei giornalisti e di parte del personale sanitario, Israele non ha dato nessuna motivazione però. Purtroppo conosciamo bene le sorti dei colleghi che vengono presi in custodia con azioni violente e portati in Israele dove vengono sottoposti a lunghe e pesanti indagini. Ma anche a torture come hanno testimoniato decine di giornalisti tornati.
Temo che quelli arrestati allo Shifa siano quasi tutti i colleghi rimasti in attività a Gaza City che, come è normale nel nostro mestiere, quando hanno visto entrare i carri armati in città si sono subito sposati verso l’ospedale. I centri sanitari sono durante la guerra luoghi ideali per raccogliere informazioni e seguire le storie: primo perché sono solitamente luoghi sicuri che non dovrebbero venire bombardati – anche se è successo anche quello; secondo perché qui arrivano feriti, telefonano persone coinvolte in operazioni e incidenti, passano testimoni.
Ismail e gli altri stavano semplicemente svolgendo il loro lavoro, arrestarli ha dimostrato ancora una volta che Israele vuole mettere a tacere la stampa in modo che nessuno conosca cosa si nasconde dietro le loro operazioni. Noi giornalisti sappiamo che lavorare a Gaza significa anche andare contro poteri forti e sappiamo quanto questo mestiere ci renda soli. In costante pericolo di vita, passibili di arresti e torture, sgraditi perché considerati dei target. Anche passeggiare con noi è da evitare e persino le nostre famiglie finiscono per diventare obiettivi o molto spesso subiscono forme di ostracismo che portano a far sì che per noi e i nostri cari sia difficile affittare una casa. In tanti smettono di raccontare storie perché hanno paura. In pochi siamo ancora qui a farlo.
Nell’immagine: Ismail Al Ghoul, Al Jazeera ha denunciato il suo arresto durante le operazioni militari allo Shifa