Di Cory Doctorow, Financial Times (versione italiana da Internazionale)
L’impulso merdificante, ormai incontrollato, ci ha proiettati nell’era del merdocene. La prima a cadere è stata la concorrenza. Dalla fine dell’ottocento fino agli anni di Ronald Reagan, l’obiettivo delle norme sulla concorrenza è stato favorire la competizione tra le aziende. Le leggi antitrust statunitensi trattavano il potere imprenditoriale come un pericolo e cercavano di limitarlo. Le leggi antitrust europee, importate dagli architetti del piano Marshall, erano modellate su quelle statunitensi. Poi però, a partire dagli anni ottanta, con l’avvento del neoliberismo, in tutto il mondo le autorità di vigilanza sulla concorrenza hanno adottato la cosiddetta dottrina del “benessere dei consumatori”, secondo la quale, in sostanza, i monopoli erano sinonimo di qualità. Se tutti andavano nello stesso negozio e compravano lo stesso prodotto significava che era il miglior negozio e vendeva il miglior prodotto, non che qualcuno stava barando.
E così, in tutto il mondo, i governi hanno smesso di applicare le leggi sulla concorrenza. Quando le aziende le hanno calpestate, si sono semplicemente girati dall’altra parte. Le aziende ne hanno approfittato, fondendosi con le loro principali concorrenti e cominciando ad assorbire gli operatori più piccoli prima che diventassero troppo grandi e minacciosi. Quest’orgia di fusioni e acquisizioni ha prodotto una serie di incroci industriali incestuosi, che vanno dagli occhiali da sole al trasporto marittimo, dalle bottiglie di vetro alla gestione dei pagamenti, dalla vitamina C alla birra. Gran parte dell’economia mondiale è dominata da quattro, cinque aziende globali. Se quelle più piccole rifiutano di vendersi a questi cartelli, i colossi hanno carta bianca per calpestare la concorrenza attraverso “prezzi predatori” che impediscono ai rivali di farsi strada nel mercato. Quando il sito di prodotti per l’infanzia Diapers.com ha rifiutato l’offerta di acquisizione di Amazon, il colosso fondato da Jeff Bezos ha bruciato cento milioni di dollari vendendo per mesi pannolini sottocosto. Diapers.com è fallito e Amazon ha comprato l’azienda per pochi spiccioli.
E così è saltato il primo vincolo, e a quel punto anche il secondo – la regolamentazione – aveva i giorni contati. Quando un settore è formato da centinaia di piccole e medie imprese, è una folla indistinta, una marmaglia. Centinaia di aziende non riusciranno mai a mettersi d’accordo su cosa dire al parlamento o a una commissione. A stento riuscirebbero a mettersi d’accordo su come organizzare una riunione per discuterne.
Quando però un settore si restringe a una manciata di aziende dominanti, smette di essere una marmaglia e diventa un cartello. Cinque, quattro, tre, due o una sola impresa possono convergere facilmente su un unico messaggio da recapitare ai regolatori e, senza una “inutile concorrenza” a minacciare i loro profitti, hanno soldi da distribuire a destra e a manca.
Ecco perché la concorrenza è importante: non solo perché spinge le imprese a lavorare di più e a condividere il valore con clienti e dipendenti; ma perché gli impedisce di diventare troppo grandi per fallire o finire dietro le sbarre.
Certo, ci sono un sacco di cose che non vogliamo veder migliorare grazie alla concorrenza, per esempio l’invasione della privacy. L’approvazione del Regolamento generale sulla protezione dei dati (Rgpd), la storica legge sulla privacy dell’Unione europea, è stata un evento di estinzione di massa per molti piccoli operatori di pubblicità online europei. Ed è stato un bene: erano perfino più invadenti e spregiudicati dei colossi tecnologici statunitensi. Non c’è bisogno di aumentare l’efficienza di chi viola i diritti delle persone.
Google e Facebook, però, sono uscite indenni dalla legge europea sulla privacy. E non perché non la infrangono. È che hanno una sede di facciata in Irlanda, uno dei più noti paradisi della criminalità imprenditoriale dell’Unione europea, che contende ad altri paradisi simili (Malta, Lussemburgo, Cipro, a volte i Paesi Bassi) la palma del paese più ospitale. La commissione irlandese per la protezione dei dati si pronuncia su pochissimi casi, e più dei due terzi delle sue decisioni sono ribaltate dall’Unione europea, anche se l’Irlanda è la sede delle aziende che invadono di più la privacy sul continente. Google e Facebook, quindi, possono permettersi di agire come se godessero dell’immunità rispetto alla legge sulla privacy, perché violano la legge attraverso un’app.
È qui che sarebbe d’aiuto il terzo vincolo: il fai da te. Se non volete che la vostra privacy sia violata, non dovete aspettare che si pronuncino le autorità irlandesi, basta installare il blocco della pubblicità. Più della metà degli utenti su internet lo fa. Ma il web è una piattaforma aperta, sviluppata quando nel settore tecnologico c’erano centinaia di aziende in lotta tra loro, incapaci di influenzare le autorità. Oggi è divorata dalle app, che sono il paradiso della merdificazione. La cosiddetta “cattura normativa” non è solo la capacità di calpestare le regole, ma soprattutto di usare le regole contro gli avversari.
Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic Frontier Foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del Canada di Berlino