Fermiamo questa merda (5) – Gli schiavi volontari del business digitale

Fermiamo questa merda (5) – Gli schiavi volontari del business digitale

Internet non è più importante della crisi climatica, della giustizia di genere, dei genocidi o della disuguaglianza. Però, è il terreno su cui si combattono queste battaglie. Senza un web libero, giusto e aperto, la battaglia è persa in partenza


Redazione
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Fermiamo questa merda (5) – Gli schiavi...

Di Cory Doctorow, Financial Times (versione italiana da Internazionale)

Per decenni il potere negoziale e il fatto che i dipendenti del settore tecnologico sentivano di avere una missione hanno messo un freno alla merdificazione. Anche dopo che il settore si è ridotto a una manciata di giganti. Anche dopo la cattura normativa. Anche dopo la fine del fai da te. Le aziende erano ancora imbrigliate dall’indignazione dei loro dipendenti di fronte alla merdificazione.

Ricordate quando il sogno dei lavoratori tecnologici era stare per qualche anno in una grande azienda del settore per poi mettersi in proprio e fondarne una nuova che avrebbe spazzato via la vecchia? Quel sogno si è ridotto a lavorare per qualche anno per un colosso, dare le dimissioni, mettere su una finta startup e farsi “comprare-assumere” dal vecchio datore di lavoro. Praticamente un modo più complicato per ottenere un bonus e una promozione. Poi il sogno si è ridimensionato ancora: lavorare per un colosso tecnologico per tutta la vita in cambio di forniture di litri di kombucha e massaggi gratis il mercoledì.

Ora il sogno è finito. Quel che resta è: lavorare per un colosso tecnologico finché non ti licenzia, com’è successo l’anno scorso a dodicimila dipendenti di Google, mandati a casa otto mesi dopo un’operazione di riacquisto di azioni proprie che sarebbe bastata a pagare i loro stipendi per 27 anni. I lavoratori non sono più un freno ai peggiori impulsi dei loro capi. La reazione a “mi rifiuto di peggiorare questo prodotto” è: “Restituisci il badge e stai attento a non farti sbattere la porta sul culo quando esci”.

Capisco che tutto questo è un po’ deprimente. Ok, molto deprimente. Ma abbiamo isolato il virus. Abbiamo capito qual è il suo meccanismo di fondo. Possiamo cominciare a lavorare a una cura. Ci sono quattro vincoli che frenano la merdificazione: concorrenza, regolamentazione, fai da te e lavoro. Per invertire il corso della merdificazione e impedire che si ripresenti, dobbiamo ripristinarli e rafforzarli tutti e quattro. Sulla concorrenza, in realtà siamo già messi abbastanza bene. L’Unione europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, il Giappone e la Cina stanno facendo per la concorrenza più di quanto hanno fatto in due generazioni: stanno bloccando le fusioni, stanno sciogliendo quelle esistenti, stanno intervenendo contro i prezzi predatori e altre tattiche losche.

Badate bene, negli Stati Uniti e in Europa abbiamo già leggi che fanno tutte queste cose: abbiamo solo smesso di applicarle. È da due anni che combatto questa battaglia con l’organizzazione non profit Electronic Frontier Foundation e non ho mai visto un momento così favorevole per una politica tecnologica sana e informata.

Certo, i merdificatori non stanno a guardare. Pensate a quello che sta succedendo a Lina Khan, la presidente della Federal trade commission, l’antitrust degli Stati Uniti, che in tre anni ha fatto più di tutti i suoi predecessori negli ultimi quaranta. La pagina degli editoriali del Wall Street Journal ha pubblicato più di ottanta articoli per screditare Khan e farla passare per un’ideologa incapace e inconcludente. Come no, è per questo che hanno fatto ottanta editoriali contro di lei, perché è inconcludente. Negli anni ottanta, Reagan e Thatcher hanno messo la normativa antitrust in coma. Ora però l’antitrust si è svegliata, è tornata ed è incazzata nera.

E la regolamentazione? Come si fa a impedire alle aziende tecnologiche di ricorrere al trucco di usare un’app per aggirare la normativa? Be’, nell’Unione europea stiamo cominciando a capire come. Di recente è entrato in vigore il corpo centrale della normativa sui mercati digitali e della normativa sui servizi digitali, che permette ai consumatori truffati dalle aziende tecnologiche di rivolgersi direttamente ai tribunali europei, scavalcando gli inutili “cani da guardia” di paesi come l’Irlanda. Negli Stati Uniti sembra che finalmente si farà una legge sulla riservatezza digitale. Forse non avete idea di quant’è arretrata la normativa statunitense sulla privacy. L’ultima volta che il congresso ha varato una legge sulla privacy generale è stato nel 1988. Il Video privacy protection act stabilisce che se un videonoleggio divulga la lista dei film che avete noleggiato commette un reato. La legge è stata approvata dopo che un giornale di Washington aveva pubblicato la lista dei video noleggiati da un giudice di destra candidato alla corte suprema. Non erano neanche così imbarazzanti.

Certo, quel giudice, Robert Bork, non fu più eletto alla corte suprema, ma solo perché era uno che parlava troppo, e a sproposito, oltre a essere stato il viceministro della giustizia di Richard Nixon. I deputati del congresso, però, erano terrorizzati che la prossima volta sarebbe toccato a loro, andarono nel panico e approvarono la legge. È stata l’ultima volta che gli statunitensi hanno avuto una legge federale sulla privacy. E il bello è che c’è un sacco di gente arrabbiata per questo ritardo. Magari perché ha paura che Facebook convinca il nonno a convertirsi a QAnon. O che gli adolescenti diventino anoressici per colpa di Instagram. O che i ragazzini della generazione Z comincino a citare Osama bin Laden perché TikTok gli ha fatto il lavaggio del cervello.

O magari che la polizia identifichi i partecipanti a una manifestazione di Black lives matter o alle sommosse del 6 gennaio, scaricando i dati di localizzazione da Google. O che i procuratori generali degli stati repubblicani rintraccino le adolescenti che abortiscono fuori dei confini dello stato. O che i neri siano discriminati dalle piattaforme di prestiti o di assunzioni online. O che qualcuno pubblichi un porno deepfake su di voi fatto con l’intelligenza artificiale. Una legge che autorizza un privato a denunciare un’azienda che viola la sua privacy sarebbe utile a correggere queste storture. Fortunatamente c’è una grande coalizione a favore di una legge simile.

E il fai da te? Qui, ahimè, siamo molto più lontani. La direttiva sui mercati digitali dell’Unione europea costringerà le aziende tecnologiche ad aprire i loro orticelli recintati all’interoperabilità. Potremo usare WhatsApp per mandare messaggi a qualcuno su iMessage, oppure abbandonare Facebook, spostarci su Mastodon e continuare a mandare messaggi a chi resta.

Se però volete capire come funziona uno di questi prodotti e modificarlo a vostro vantaggio, e non loro, l’Unione europea non vi tutela in alcun modo. Qui c’è sicuramente spazio per un miglioramento. La mia speranza è che entri in gioco la legge di Stein: se qualcosa non può andare avanti in eterno, si fermerà.

Infine, il lavoro. In Europa il tasso di sindacalizzazione è molto più alto che negli Stati Uniti. Non c’è niente di più divertente che leggere della recente raffica di attacchi dei sindacati scandinavi alla Tesla. Ma anche negli Stati Uniti c’è stata una grande avanzata dei sindacati del settore tecnologico. I lavoratori hanno capito che non sono potenziali capitani d’industria. A Seattle hanno scioperato per solidarietà con i magazzinieri di Amazon, perché si sono accorti che sono tutti sulla stessa barca. Stiamo assistendo a un’azione ambiziosa a livello globale sulla concorrenza, la regolamentazione e il lavoro, ma con il fai da te un po’ più indietro. Siamo giusto in tempo, perché la brutta notizia è che la merdificazione si sta allargando a tutti i settori. Basta che ci sia un computer in rete, e le aziende possono fare la mossa di Darth Vader, cambiando le regole da un momento all’altro e violando i vostri diritti per poi dire: “È tutto a posto, l’abbiamo fatto con un’app”. Dalla Mercedes, che sostanzialmente vi affitta il pedale dell’acceleratore mese per mese, alle lavastoviglie collegate in rete, che vi costringono a usare il sapone per i piatti che dicono loro, la merdificazione si sta insinuando come una metastasi in ogni angolo della nostra vita.

Ma c’è un lato positivo: se tutti siamo minacciati dalla merdificazione, tutti abbiamo da guadagnare dalla demerdificazione. Come per la legge sulla privacy negli Stati Uniti, la potenziale coalizione anti-merdificazione è gigantesca. È inarrestabile. Quelli più cinici tra di voi dubiteranno che questo possa fare la differenza. In fondo, dire “merdificazione” non è lo stesso che dire “capitalismo”? Be’, no. Non voglio fare l’avvocato difensore del capitalismo: non credo che i mercati siano gli allocatori più efficienti delle risorse né gli arbitri della politica. Eppure, vent’anni fa il capitalismo ha trovato uno spazio per una cosa incontrollabile e informe come internet, uno spazio dove le persone che la pensavano in modo diverso potevano trovarsi, aiutarsi reciprocamente e organizzarsi. Il capitalismo attuale ha prodotto solo un gigantesco centro commerciale fantasma aperto in tutto il mondo e pieno di bot molesti, gadget di merda prodotti da aziende dai nomi pieni di consonanti e criptovalute truffaldine.

Internet non è più importante della crisi climatica, della giustizia di genere, della giustizia razziale, del genocidio o della disuguaglianza. Internet, però, è il terreno su cui si combattono queste battaglie. Senza un web libero, giusto e aperto, la battaglia è persa in partenza. Possiamo invertire il processo di merdificazione, possiamo fermare la merdificazione strisciante di ogni dispositivo digitale, possiamo costruire un sistema nervoso digitale migliore, in grado di coordinare i movimenti di massa di cui abbiamo bisogno per combattere il fascismo, per fermare il genocidio, per salvare il pianeta e la nostra specie.

Martin Luther King ha detto: “Magari è vero che la legge non può costringere un uomo ad amarmi, ma può impedirgli di linciarmi, e io penso che sia abbastanza importante”. E magari è vero che la legge non può costringere le multinazionali a considerarmi un essere umano che ha diritto alla dignità e a un trattamento equo, e non un portafoglio ambulante, una riserva di batteri intestinali per quell’organismo coloniale imperituro che risponde al nome di società a responsabilità limitata. Ma posso costringerle a temermi abbastanza da trattarmi in modo equo e a riconoscere la mia dignità. Anche se pensano che non me la merito.

(fine)


Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic Frontier Foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del Canada di Berlino

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