I fuoriusciti dalla democrazia
Sempre più chi conquista il potere è tentato da scorciatoie illiberali
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Sempre più chi conquista il potere è tentato da scorciatoie illiberali
• – Redazione
Ecco perché ci riuniamo il 3 giugno. L’anima dell’Europa è in pericolo. Dovrebbe essere, per parafrasare Paul Celan, la patria degli uomini e dei libri. Invece torna a essere il luogo dei vituperi più criminali
• – Redazione
La grande banca è stata sanzionata per mancata denuncia dell’ex dittatore yemenita Ali Abdullah Saleh, causa 10 milioni di dollari ricevuti nel 2009. Il Ministero pubblico della Confederazione indaga ancora su altri 65 milioni detenuti nello stesso istituto da dignitari vicini a Saleh
• – Federico Franchini
Swisscom ha perfezionato il finanziamento per l'acquisizione di Vodafone Italia. L'operazione da 8 miliardi di euro ha sorpreso gli operatori del settore della Penisola. Una scelta strategica per Swisscom, che già controlla Fastweb
• – Redazione
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• – Franco Cavani
Come è già avvenuto per le crisi nei Balcani, l’Occidente è caduto nella trappola slava e ora si fa dettare l’agenda da Zelenski e da Putin. Stiamo avanzando come sonnambuli verso la guerra, senza capire come e perché
• – Redazione
Nella lista nera dello zar finiscono le donne che chiedono il ritorno a casa di mariti, figli e padri. Il provvedimento mostra che il regime le considera un pericolo. Le attiviste: «Non ci fermeremo»
• – Redazione
Persino di fronte alle stragi in corso a Gaza, così come fu per il massacro di Sabra e Chatila, c’è chi invita la stampa a.... “moderarsi”
• – Silvano Toppi
Questo è un anno cruciale per il futuro dello stato sociale svizzero. Dopo la vittoria sulla tredicesima AVS in autunno bisogna bocciare la riforma del secondo pilastro, sostenendo il referendum.
• – Fabio Dozio
Dobbiamo sfatare quel mito pernicioso che risponde al nome di “crescita infinita” e imparare a consumare meno - Di Giovanna Ceccarelli
• – Redazione
Sempre più chi conquista il potere è tentato da scorciatoie illiberali
«L’America è uno Stato fascista». L’inizio e l’epilogo della crisi che la democrazia sta vivendo coincidono in questa denuncia disperata e incendiaria di Donald Trump, una dichiarazione di guerra al suo stesso Paese, accusato di ribellarsi alla sottomissione al suo ex presidente, quando pretende di essere al di sopra della legge, del giudizio dei tribunali e delle scelte dei cittadini con il voto.
Siamo tecnicamente davanti alla sovversione sulla soglia della Casa Bianca, con il leader repubblicano che chiama il popolo alla rivolta contro il presidente democratico, additato alla folla dell’ultimo comizio come un criminale che manovra i giudici per eliminare dalla gara il suo rivale, dopo aver truffato le elezioni.
La garanzia di libertà del sistema diventa condizionata, intermittente e revocabile, secondo le convenienze della furia trumpista mutevole, dentro il regime per guidarlo se vince, pronta a maledirlo da fuori se perde. Fino alla discesa dell’ultimo gradino, inevitabile: perché se l’America è fascista, cade l’ultimo velo del patriottismo costituzionale, e la destra non si riconosce più nell’orizzonte comune della democrazia repubblicana.
Questo è il vero punto distintivo della nuova epoca: la spinta a fuoriuscire dalla democrazia, vale a dire dalla cornice comune della cultura, della politica e diciamo pure della fede democratica. È una spinta innescata dalla successione delle crisi a catena che hanno aggredito il secolo nascente, rivelando tutta la fragilità della costruzione democratica che credevamo ormai egemone, la sua incapacità di tener fede alle grandiose promesse di libertà e di emancipazione, la difficoltà ad arginare nei fatti la delusione e la rabbia di quella fetta crescente di cittadini tagliati fuori, che vivono direttamente l’esperienza delle diseguaglianze precipitate in esclusioni.
Trump aveva trasformato questo sentimento di rancore, frustrazione e vendetta in una figura sociale, il forgotten man, l’uomo solo dimenticato dalla politica, rivolgendo direttamente a lui il discorso della vittoria, con una promessa che rovesciava la piramide di classe: tu domani entrerai con me alla Casa Bianca.
Un paradosso rivoluzionario, col tycoon miliardario che si china sulla nuova emarginazione del ceto medio sommerso, ne incamera il risentimento universale, una cambiale di rancore convertibile in contro-politica: e viene immediatamente riconosciuto come leader dagli spossessati di ogni rappresentanza e di qualsiasi provenienza proprio per la sua irregolarità, la non conformità del linguaggio e delle forme, l’irriducibilità alternativa del suo stesso personaggio.
Il forgotten man è stato il protagonista a sorpresa della prima avventura trumpiana, rompendo la barriera tra il popolo di destra e quello di sinistra: oggi la seconda stagione si inaugura sull’altro polo della rivoluzione reazionaria, quello della leadership, che si fa insurrezionale. Come se fossero chiamati entrambi ad un appuntamento della storia, il forgotten man sta andando incontro al suo compagno di strada, il presidente-eversore, l’insurgent, l’alfa e l’omega del sistema.
Non ci siamo ancora resi conto della vastità e dunque della facilità di questa fuoriuscita dalla democrazia: anzi della seduzione che esercita sui leader indifferenti al sistema dei diritti e delle garanzie, perché tentati dalla scorciatoia dei pieni poteri, del nuovo autoritarismo, del rapporto diretto tra popolo e sovrano, senza più intermediazioni.
La novità è questa esplicita convenienza, per il radicalismo di destra, nel saltare la regola democratica, e cioè il sistema del bilanciamento dei poteri che accompagna l’esercizio della legittima potestà di governo.
Non è soltanto l’unzione sacra del consenso che libera il leader dai lacci e lacciuoli dei controlli sui suoi atti: è il fondamento di una diversa autorità e di una autonoma legittimazione che nascono quasi autocraticamente, comunque fuori dal travaglio della democrazia e dal senso del limite, in un luogo nuovo e incontaminato dove il consenso si trasforma in potestà, fondando una sovranità finalmente compiuta, senza più ostacoli, quasi incandescente. Tutta la cabala antica della democrazia si riassume e si condensa nella formula finale di una sola parola: il comando.
Si avvera così la profezia di Putin nel 2018: la democrazia non deve essere per forza liberale, può esistere e sopravvivere cambiando pelle fuori dallo Stato di diritto, e in ogni caso è una semplice costruzione umana figlia del secolo, dunque non è affatto detto che riesca a sopravvivere oltre la frontiera del Novecento.
Il fatto è che al funerale della democrazia oggi accorrono in ugual misura dittatori in carica, aspiranti autocrati, leader neo-autoritari, reazionari nostalgici e populisti neofiti: e sorprendentemente, anche persone e personaggi di sinistra incapaci di vedere che la cifra antidemocratica dell’epoca è con ogni evidenza reazionaria, tanto da rievocare un proclama dimenticato di Mussolini nel marzo del ’22: «È finito il secolo democratico, il secolo del numero, della quantità, della maggioranza. Comincia un secolo aristocratico: lo Stato di tutti tornerà ad essere uno Stato di pochi. Pochi, ed eletti».
Come si spiega questa regressione e questa cecità? Intanto con la concatenazione semplificata dei concetti, democrazia uguale Occidente, uguale Stati Uniti d’America, uguale ossessione eterna che supera l’evidenza dei fatti e delle guerre, con l’ideologia che si ribella alla lezione della storia, e non riesce a morire. Poi con la lunga semina del populismo che racconta da oltre un decennio la democrazia come un grande inganno, una confisca di realtà da parte delle élite, una mistificazione imperante.
Solo così, con questa perenne auto-consolazione nella purezza dell’altrove, si può arrivare allo smarrimento di ogni coscienza del dovere morale e politico nei confronti dell’Ucraina aggredita, esultando anzi per qualsiasi successo militare dell’Armata russa, concedendo a Mosca tutto ciò che si nega a Kiev, naturalmente in nome della pace.
Come se la realizzazione di una vera pace non passasse necessariamente dai principi riaffermati del diritto e della giustizia, ma esclusivamente dalla forza: il nuovo idolo pagano, che minaccia ogni giorno di più di insediarsi sugli altari d’Occidente al posto del Dio democratico spodestato.
Come il “Tagi” ha ricordato l’impegno del magistrato, del governante e del parlamentare ticinese
Il premio Nobel per la Pace con Memorial: «Siamo di fronte a una dittatura opaca, dalle logiche criminali. Ma il fatto che abbiano voluto la fine di Alexey è anche un segno di...