Di Francesca Sforza, La Stampa
«La prima reazione è stata: mi hanno ucciso! Poi, un minuto dopo: disastro! Ora, più consapevolmente, dico che per noi, per il Paese Russia, per il suo futuro politico, questa morte, questo omicidio, avrà conseguenze irreversibili». Risponde così, Boris Belenkin, dal suo esilio in Repubblica Ceca, subito dopo aver saputo della morte di Alexey Navalny. Si conoscevano bene, il dissidente simbolo dell’opposizione a Vladimir Putin e l’uomo che nel 2022 si è visto assegnare il premio Nobel per la pace con Memorial, l’organizzazione in difesa dei diritti umani fondata da Andrey Sakharov. Belenkin dal 1990 ne dirigeva la biblioteca, che nel caso di Memorial significava un enorme archivio sui crimini commessi in Unione Sovietica. Dal 2022, in contemporanea con il Nobel, Memorial è stata chiusa, e i suoi membri hanno continuato le loro ricerche dall’estero, nella speranza di poter un giorno tornare in una Russia diversa. Cosa che da ieri sembra a Belenkin ancora più difficile.
Boris Belenkin, conosceva bene Alexey Navalny?
«Negli anni in cui era ancora possibile, il nostro lavoro è stato spesso occasione di incontri, lui rappresentava la voce che più di ogni altra era riuscita a raggiungere una grande maggioranza del Paese, aveva rivoluzionato il linguaggio, ogni volta che postava un messaggio mostrava quanto falsa e retorica fosse la propaganda del potere ufficiale».
Crede che ci saranno proteste nel Paese davanti alla notizia della sua morte?
«Non credo che ci saranno proteste di massa. Singole e isolate probabilmente sì, ci saranno. Ma uscirà allo scoperto solo chi sarà pronto a pagare il prezzo della sua libertà. Questa è la Russia oggi: ogni “uscita in piazza” equivale all’entrata in un carcere».
Crede che la morte di Navalny riuscirà a influenzare in qualche modo le prossime elezioni?
«Non penso che la sua morte possa in qualche modo cambiare l’esito di questo particolare voto. Il risultato è predeterminato, tutta l’opposizione è già stata fatta fuori, e se anche qualcuno dovesse presentarsi sarà sicuramente per operazioni di facciata. Ma un giorno, in una Russia libera, questa morte influenzerà a lungo l’esito del voto…».
Perché secondo lei?
«Perché Navalny, prima di essere un simbolo dell’opposizione era un simbolo per i russi. La sua presenza, anche dal carcere, stava a testimoniare l’esistenza di un pensiero libero, di una speranza».
Putin oggi è più forte o più debole?
«In un certo senso, la sua morte ha sicuramente indebolito il potere di Putin. Uccidono per impotenza, significa che si sentono messi all’angolo. Gli assassini che nascondono impotenti il fatto di essere assassini sono ridicoli e patetici».
Non ha dubbi sul fatto che si tratti di omicidio, e non di una morte accidentale come dichiarato dalle autorità?
«Mi sembra talmente ovvio: hanno cominciato a ucciderlo molti anni fa, ieri hanno semplicemente deciso di portare a compimento la missione».
Vede una coincidenza tra la morte di Navalny e l’anniversario, fra pochi giorni, del secondo anno di guerra?
«La mistica delle ricorrenze è una cosa che in Russia si ripropone di tanto in tanto, ma mi sembra più che altro la conseguenza della totale opacità di questa dittatura, le cui logiche criminali sono imperscrutabili».
C’è qualcuno in grado di raccogliere l’eredità politica di Navalny?
«Al momento non vedo una persona del genere, e credo che questa sia un’altra tragedia della Russia».
Chi sono oggi gli oppositori di Putin?
«Gli oppositori di Putin oggi sono tutti coloro che desiderano, sperano, aspettano, che stanno facendo qualcosa affinché il potere di Putin svanisca nell’oblio. E il prima possibile».
Quante persone del genere ci sono in Russia?
«Non lo so. Ma credo molte di più di quanto dica qualsiasi sondaggio d’opinione o di quanto dirà il risultato delle cosiddette elezioni».
La fine della guerra oggi le sembra più vicina o più lontana?
«La fine di questa guerra dipende interamente dalla fermezza, dalla coerenza e dall’inequivocabilità della posizione della comunità internazionale, o in ogni caso, della sua maggioranza civilizzata. E dipende, voglio dirlo con molta chiarezza, dal sostegno (o dal non sostegno) che viene dato all’Ucraina».
Nell’immagine: Boris Belenkin