Di Stefano Stefanini, La Stampa
L’attentato contro Robert Fico è allarmante per l’intera Europa. Forse è stato un atto di violenza puramente locale, senza propaggini geopolitiche o di sicurezza. Ma non c’è niente di locale nel malessere di un intero pezzo di Europa. La Georgia si gioca la prospettiva europea con una legge illiberale; la Bulgaria l’ingresso nell’euro per fragilità politiche interne; la Macedonia del Nord l’avvio dei negoziati con Bruxelles per l’adesione all’Ue pur di ritrattare la componente “Nord” del nome frutto di un faticosissimo compromesso con la Grecia; Serbia e Kosovo hanno abbandonato qualsiasi parvenza di dialogo costruttivo sotto l’egida di Bruxelles, che era uno dei (pochi) fiori all’occhiello della politica estera europea.
Cosa non sta funzionando nell’Europa centrorientale? Tre cose: la forza di gravità dell’Unione europea si è smorzata; le pulsioni nazionaliste e tensioni regionali sono rispuntate; la pressione russa per riacquistare influenza e contrastare l’ancoraggio all’Europa e all’Occidente si è fatta fortissima. Adesso si è fatta guerra aperta. Mai sottovalutare i colpi di coda di un impero in liquidazione. È evidentemente l’Ucraina a farne le spese per prima. Ma il colpo che Mosca sta dando in Georgia è altrettanto determinante, perseguito tramite i buoni uffici dell’oligarca locale, Bidzina Ivanishvili, che manovra il partito al governo, “Sogno Georgiano”, per tagliare le gambe ai sogni euroatlantici dei giovani goergiani che in questi giorni scendono in piazza sventolando la bandiera dell’Ue. Quasi senza ricorrere alle armi, tranne la piccola invasione del 2008, in Georgia la Russia ha realizzato il “regime change” che insegue col sangue in Ucraina. A Tbilisi ci è riuscita grazie alle divisioni interne favorito un misto di corruzione e disinformazione.
L’Europa centrorientale è purtroppo in marcia indietro. Dagli anni Novanta aveva intrapreso un processo di assestamento democratico e consolidamento dello Stato di diritto – la democrazia non si improvvisa solo andando a votare, le istituzioni vanno costruite, i poteri tenuti separati – richiedono consenso interno e stabilità esterna. Il primo si è incrinato anche per effetto della fatale attrazione autocratica, fuori e dentro l’Ue, vedi Serbia di Aleksandr Vucic, vedi l’Ungheria di Viktor Orbán, entrambi riusciti a blindare democraticamente, via urne, il loro potere non democratico. Entrambi hanno avuto un buon maestro a Mosca. La seconda è venuta totalmente a mancare.
Questa parte dell’Europa vive, da oltre due anni, con la guerra letteralmente sulla soglia, ne vede le conseguenze non fosse altro che nei milioni di rifugiati che si riversarono attraverso le frontiere – e dei quali molti sono rimasti. Quando noi, a Milano o a Barcellona, parliamo del “ritorno della guerra in Europa” constatiamo una realtà dalla quale la geografia ci tiene abbastanza lontani. Chi è a Bucarest o a Vilnius la tocca per mano. Per l’Europa centrorientale il conflitto russo-ucraino, senza fine in vista, è come avere sul fianco una ferita che non si rimargina. Ed è anche una latente minaccia per chi ricorda di essere stato Pease “satellite” o parte dell’Unione Sovietica. Chi è più piccolo e vulnerabile, come i Baltici, l’avverte sulla pelle malgrado lo scudo Nato. Che però non tutti hanno, chiedere a Volodymir Zelensky che ne avrebbe più bisogno di altri.
Una volta tanto però non diamo tutte le colpe a Vladimir Putin. Il rischio geopolitico che corre attraverso tutta la fascia di Paesi dell’Europa centrorientale dal Baltico al Mar Nero non è solo conseguenza della latente minaccia russa – che Mosca nega senza che nessuno dei diretti interessati creda alla smentita… È fatto anche d’instabilità politica endogena, di tensioni interne ed esterne, di democrazia in affanno, di ansie di sicurezza. Certo, il Presidente russo ci inzuppa il pane, ad esempio nei Balcani dove pianta bandierine incoraggiando il secessionismo della Repubblica Srpska in Bosnia, ma trova terreno fertile nel riaccendersi di tensioni etniche o nazionali e di rivalità politiche interne che fanno cadere come birilli i governi di coalizione, come avvenuto in Bulgaria. E approfitta sia della ritirata degli Usa che devono concentrarsi sulle priorità strategiche, che fanno passare in secondo piano i Balcani, che delle esitazioni europee. Dopo aver preso la Croazia nel 2013, l’Ue ha traccheggiato per dieci anni sull’allargamento. Chi era in lista d’attesa non ci crede più.
Se terrorismo locale, l’attentato contro Robert Fico è un gesto che si può isolare. Il malessere generale est-europeo no. Per affrontarlo bisogna rimboccarsi le maniche. Questo vale per chi è già dentro l’Ue e per chi ne è fuori, ma vale anche per Bruxelles.
Nell’immagine: l’arresto di Juraj Chintula dopo l’attentato a Fico