Israele-Hamas, il corto circuito del diritto
La contaminazione tra il piano giuridico e quello politico rischia di affievolire le speranze di pace
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La contaminazione tra il piano giuridico e quello politico rischia di affievolire le speranze di pace
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La contaminazione tra il piano giuridico e quello politico rischia di affievolire le speranze di pace
Sul piano giuridico la richiesta del procuratore è, come ha notato il New York Times, il più duro e circostanziato atto d’accusa alla strategia di Benjamin Netanyahu a Gaza, dalla quale ormai si è apertamente dissociato il presidente americano Biden, come ha ripetuto domenica 19 maggio nel discorso al Morehouse College di Atlanta. Sul piano politico, però, l’incriminazione del premier israeliano e del ministro Yoav Gallant, accomunati a tre capi di un’organizzazione terroristica come Hamas, rischia di rallentare, se non di bloccare, un percorso di normalizzazione dello scacchiere mediorientale, che si era appena aperto dopo l’incontro tra il consigliere di Biden per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
Gli aspetti tecnico-giuridici della decisione di Karim Khan — magistrato di grande esperienza sul tema dei crimini di guerra e contro l’umanità e che ha condotto un’indagine accurata recandosi anche sul territorio — sono notevoli e meritano attenzione, anche per l’originalità di alcune conclusioni. Tenuto conto, come dice un panel di esperti internazionali, che “l’attacco di Hamas in Israele il 7 ottobre e la risposta militare delle forze israeliane a Gaza hanno testato il sistema della legge internazionale fino ai suoi limiti”.
Ed è proprio il parere del panel, composto da sei giuristi anglo-americani (la più nota, ma non la più titolata, è Amal Clooney, moglie dell’attore George), due dei quali ex giudici della Corte penale, che è utile per capire le motivazioni che hanno portato il procuratore dell’Aia a incriminare i cinque “imputati”, mettendo sullo stesso piano il primo ministro eletto di uno Stato democratico come Israele e il capo di Hamas, Yahya Sinwar, che ha “governato” Gaza con terrore e brutalità, dopo aver messo nell’angolo l’Autorità palestinese (in questo, a dire il vero, con la compiacenza di Netanyahu per i suoi giochi di potere).
Secondo gli esperti, che convalidano le conclusioni di Khan, le motivazioni di questa equivalenza stanno nel fatto che il “conflitto in Israele e a Gaza comprende un conflitto armato internazionale e un conflitto non-internazionale che si svolge in parallelo”. E, secondo un ragionamento che, per usare le stesse parole del panel stressa le leggi internazionali fino ai suoi estremi limiti interpretativi, l’ostilità tra Hamas, definito “un gruppo armato non-Stato altamente organizzato”, “sono state sufficientemente intense da raggiungere la soglia di un conflitto non-internazionale”. Così, secondo i sei esperti, la guerra tra Israele e Hamas si salda con il “conflitto armato internazionale” tra Israele e la Palestina, giustificando la competenza della Corte penale a giudicare i leader di Israele e i capi di Hamas.
In un articolo inviato al Financial Times, per spiegare il loro parere e prevenire critiche, i sei giuristi, che definiscono il lavoro del procuratore “rigoroso, corretto e basato sulla legge e sui fatti”, affermano che “questo conflitto è forse senza precedenti… per le fratture che ha creato e, in alcuni contesti, anche anti-semitismo e islamofobia”. Ma, aggiungono, per parare critiche di parzialità, “nessun conflitto può essere sottratto alla legge, nessuna vita di un bambino vale meno di un’altra. La legge che noi applichiamo è la legge dell’umanità, non la legge di una parte”.
Ma il paradosso di questo apparentemente impeccabile documento giuridico è che, sul piano politico, finisce per rafforzare colui del quale richiede l’arresto e l’eventuale condanna (ci vorrà tempo, forse mesi, prima che la Corte si pronunci sulla richiesta del procuratore).
Perché la decisione di Karim Khan ha compattato Israele attorno a Benjamin Netanyahu. Perfino Benny Gantz, che gli aveva lanciato un ultimatum su Gaza accusando che «cinismo e obiettivi personali sono penetrati nei vertici dello Stato», si è schierato con lui definendo l’equiparazione tra Hamas e Israele «un atto di cecità morale». La stessa reazione hanno avuto i famigliari degli ostaggi, che pure continuano a protestare contro il primo ministro. E Joe Biden, che il giorno prima ad Atlanta era arrivato a sostenere le proteste non violente degli studenti, ha qualificato come «oltraggiosa» la decisione della Corte dell’Aia perché «non c’è equivalenza — ma proprio nessuna — tra Israele e Hamas».
Ora Netanyahu può sentirsi nella condizione di mandare avanti i suoi piani per un attacco a Rafah e di negare, o almeno far sospirare, il “sì” all’accordo tra Stati Uniti e Arabia Saudita per un’estensione degli Accordi di Abramo, con la conseguente normalizzazione dei rapporti con Israele e la ripresa di un processo per creare uno Stato palestinese. La contaminazione tra il piano giuridico e quello politico rischia di creare un corto circuito, che affievolisce le speranze di pace. C’è da augurarsi che non le bruci del tutto.
Nell’immagine: il Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan
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