La sinistra davanti alle guerre
Dall’Ucraina al Medio Oriente, una parte dei conti del conflitto andranno regolati lontano dal fronte: a casa nostra
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
Dall’Ucraina al Medio Oriente, una parte dei conti del conflitto andranno regolati lontano dal fronte: a casa nostra
• – Redazione
Il vertice dei leader a Istanbul, tra Medio Oriente e gestione dei profughi, ha spinto un affare bloccato da tempo. Il turco vuole 40 Eurofighter, il tedesco il rimpatrio di 15 mila richiedenti asilo: ecco il volto cinico dell’Occidente
• – Redazione
Un’antologia di imminente presentazione che raccoglie una trentina di contributi di altrettanti autori manzoniani
• – Michele Ferrario
Bisognerebbe sostenere le infrastrutture per la salute ricorrendo al finanziamento pubblico, così come si fa per altri settori, oltretutto meno coessenziali alla vita umana
• – Silvano Toppi
Dalla convinzione che la morte del capo di Hamas apra un'opportunità, alla certezza di chi ritiene invece che un Netanyahu rafforzato non necessariamente porrà fine alla sua guerra a tutto campo
• – Aldo Sofia
Come reagirà l’Iran dopo i duri colpi subiti dai suoi maggiori alleati, Hamas e Hezbollah, e che effetti avrà sull'evoluzione del conflitto in Medio Oriente?
• – Redazione
Il tribunale di Roma ordina il rientro in Italia di 12 migranti. Il governo farà ricorso. Le udienze con i maxischermi in un clima surreale. Sentenze basate sulla Corte di giustizia europea
• – Redazione
Le affermazioni dell’ex presidente Usa nel corso di un’intervista con l’ex wrestler e podcaster Tyrus, il cui vero nome è George Murdoch
• – Redazione
Nel film di Olmo Cerri "La scomparsa di Bruno Breguet" (attualmente nelle sale ticinesi) la storia ricca di suspense del ticinese scomparso quasi 30 anni fa, dopo la scelta del terrorismo al fianco di Carlos
• – Aldo Sofia
È presente ovunque in dosi massicce: il suo diffusore, diceva lo storico ed economista Carlo Cipolla, “è una persona che provoca un danno agli altri danneggiando sé stesso”
• – Andrea Ghiringhelli
Dall’Ucraina al Medio Oriente, una parte dei conti del conflitto andranno regolati lontano dal fronte: a casa nostra
Quando le guerre in Ucraina e in Medio Oriente finiranno, una parte dei conti del conflitto andranno regolati lontano dal fronte: a casa nostra. Anche se continuiamo le nostre abitudini di vita come sempre, soltanto con un carico oppressivo di ansia e di timore, credendoci al riparo dallo spirito bellico, l’accumulo di energia politica distorta della guerra ci investe infatti sotto l’aspetto morale con il numero dei morti e la cifra dell’odio, sotto l’aspetto civile col diritto sconvolto e sotto l’aspetto dello smarrimento universale con la capacità del conflitto di svellere la storia, e spingerla a ricominciare da zero. Usciremo dall’emergenza cambiati anche nelle retrovie in cui viviamo: anzi, la mutazione è già in cammino, e non sappiamo dove arriverà.
La destra sta palesemente aspettando Trump. Mancano pochi giorni al voto americano e un ritorno alla Casa Bianca non dei repubblicani in un gioco d’alternanza dentro la regola costituzionale, ma del trumpismo come forza di rottura degli equilibri su cui si regge la partita della democrazia, avrebbe effetti immediati e diretti non solo negli Stati Uniti, ma persino in Italia.
L’identità occidentale della tradizione italiana, così come la sua espressione militare nell’Alleanza Atlantica, non è infatti uno schieramento univoco che coinvolge tutto il fronte della destra, ma è la derivata di una scelta compiuta da Giorgia Meloni (per fortuna del nostro Paese) a sostegno dell’Ucraina: conquistandosi con questa sola mossa un intero stock di politica estera, un’interlocuzione diretta con la Casa Bianca che ha superato la riserva per le radici post-neo-fasciste della premier, e un accreditamento internazionale.
Oggi la tentazione del cambiamento è forte e insidiosa, anche perché ciò che preoccupa Meloni lusinga Salvini. Uno sfondamento trumpiano inaugurerebbe infatti una nuova era, riaprirebbe un’interlocuzione con Putin, indebolirebbe Zelensky, farebbe saltare il sistema di relazioni privilegiate tra l’Unione Europea e Washington, a favore di un incoraggiamento e un sostegno americano per Orbán e gli altri leader neo-autoritari.
Mentre Forza Italia finirebbe sospinta verso il centro, che già osserva con interesse, la Lega sarebbe attratta da questa calamita sovranista radicale: che nella semplificazione della sua proposta, nella carica anti-éstablishment, nella libertà svincolata da ogni rispetto delle regole e dei doveri, estenderebbe il raggio verde della sua fascinazione fino alla cittadella dei Cinque Stelle, ancora e sempre in cerca di un’identità politica che fissi la loro natura mutevole.
Il grande dubbio sul che fare pesa interamente su Giorgia Meloni. Ricordarsi di essere stata la prima e unica leader della destra a presenziare alla discesa in campo di Trump, rispolverando una primazia, oppure difendere le sue scelte e le sue relazioni?
La premier non si è costruita ieri gli strumenti per rendere oggi autonoma la sua politica: non l’ha agganciata al sistema di governo europeo, scegliendo di non votare Ursula von der Leyen, non si è inserita in un sistema di alleanze spendibili, divisa tra i Conservatori europei e i Patrioti, in patria ha giurato sulla Costituzione senza aderirvi, rinunciando a sciogliere il nodo del giudizio storico sul fascismo. Difficilmente potrà guidare l’onda del cambiamento, e finirà col subirla.
La sinistra non è in condizioni migliori, perché scopre in questa fase che le due guerre la insidiano direttamente e rischiano di corrompere i suoi valori. A quei valori corrispondono parole d’uso tradizionali, che oggi non riescono più a fare il loro mestiere. Solidarietà, fraternità, giustizia e legalità dovrebbero essere i principi travolti dall’invasione in Ucraina, che obbligano a una risposta di sostegno a Kiev.
Umanità, rifiuto dell’orrore, diritto di difesa, senso delle proporzioni pur nella logica bellica sono i valori attraverso i quali interpretare il conflitto in Medio Oriente. Crescono invece dubbi, incertezze, cedimenti, ambiguità, naturalmente al riparo della bandiera da tutti benedetta della pace, come se una soluzione alla guerra potesse essere trovata soltanto venendo meno ai doveri che nascono dai propri ideali.
La verità è che la sinistra non riesce più a ritrovare il senso di due parole che la dovrebbero guidare in questo passaggio, l’imperialismo e l’antisemitismo. Proprio l’antisemitismo che contagia sempre più una parte del mondo progressista sta trovando una nuova libertà di espressione, un’autorizzazione dalla crisi a rimuovere l’interdetto storico e morale più pesante del Novecento, già scaduto in questi primi decenni del secolo.
Naturalmente la condotta militare di Netanyahu a Gaza e in Libano, il coinvolgimento massiccio della società civile nei contrattacchi determinati dal pogrom di Hamas del 7 ottobre, vengono indicati come la ragione di questa nuova ostilità. Ma proprio qui si compie quella transizione che Hannah Arendtdenunciava, dal pregiudizio antiebraico all’ideologia.
Gli ebrei in quanto popolo non possono essere associati alle colpe e agli errori dello Stato di Israele: senza che ciò significhi lasciare senza giudizio gli atti di guerra ordinati dal governo e rinunciare a riproporre il diritto del popolo palestinese ad avere un suo Stato.
Il riconoscimento al diritto di difesa d’Israele, dopo il pogrom, si accompagna necessariamente al dovere di rispettare le proporzioni e di conservare il senso del limite, perché essere una democrazia obbliga terribilmente, crea un vincolo che i nemici non conoscono.
Ma ecco il punto per noi osservatori: il diritto naturale a valutare e condannare gli eccessi bellici di Netanyahu può trovare spazio nel discernimento di ogni cittadino democratico solo se insieme ci si fa carico del diritto di Israele alla sicurezza e prima di tutto ci si sente responsabili del suo diritto alla sopravvivenza.
Già solo dover replicare questa formula è un’enormità: come anche il fatto che la nostra coscienza tolleri che nella quotidianità europea qualche cittadino prima di uscire di casa per camminare nelle strade dei nostri Paesi debba spogliarsi dei simboli religiosi semplicemente perché ebreo, una violenza al principio di libertà universale. Anche la sterilizzazione della parola “imperialista” è una sconfitta democratica del nostro tempo, dopo l’evidente abuso politico con cui questo sistema aveva conquistato potere nel secolo scorso.
Oggi la parola non fa più scandalo, anche se sembra concepita per descrivere in termini di scuola l’ultima guerra europea in Ucraina: l’uso dello strumento militare da parte di uno Stato per prendere il controllo politico, economico e sociale di un altro Stato libero e sovrano.
Possiamo accettare il giogo di questi due concetti? La domanda vale per tutti, ma per la sinistra la responsabilità è ancora maggiore, perché è sempre stata consapevole che il rigetto dell’antisemitismo e il rifiuto dell’imperialismo sono due elementi costitutivi della democrazia rinata nel dopoguerra, della costruzione europea, dell’avvento delle costituzioni e delle istituzioni libere.
L’Europa aveva generato il Male, e dopo averlo guardato negli occhi lo aveva respinto. Guai a dimenticare quello sguardo.
Nell’immagine: una manifestazione pro Palestina a Roma
Il razzismo diventa sistemico quando è direttamente o indirettamente incoraggiato o finanche praticato da istituzioni e da mezzi di comunicazione, non ultimi i cosiddetti social
Di fronte a un uso così fraudolento della realtà, denunciare la sprezzante doppiezza di Giorgia Meloni non è “mancanza di rispetto”: è un solo un doveroso disvelamento