Nakba, la ferita dei palestinesi
La nascita dello Stato di Israele e l'autodeterminazione degli ebrei furono invece la 'Nakba' - la catastrofe - per i palestinesi, che la commemorano oggi
Filtra per rubrica
Filtra per autore/trice
La nascita dello Stato di Israele e l'autodeterminazione degli ebrei furono invece la 'Nakba' - la catastrofe - per i palestinesi, che la commemorano oggi
• – Redazione
La senatrice a vita reagisce all’indifferenza generale e chiama in causa la responsabilità di tutti noi
• – Redazione
La tratta Sebastopoli-San Pietroburgo porta i militari reduci dal fronte a casa. Tutti bevono vodka, pochi credono alla guerra: «Non ha senso, diserterei ora»
• – Redazione
Mentre c'è chi a poche ore d'aereo si batte per lo Stato di diritto, da noi si considera la libertà un vuoto a perdere
• – Redazione
Continua la politica di tagli fiscali alle persone più facoltose; stavolta un gran regalo ai ricchi; e le statistiche smentiscono che il Ticino non sia attrattivo, visto che fra l’altro è già il secondo cantone preferito dalle aziende svizzere - Di Ivo Dürisch
• – Redazione
Il più clamoroso quello di Andrei Belousov, un economista che nemmeno ha fatto il servizio militare e che diventa ministro della difesa: così, l’economia di guerra si consolida
• – Yurii Colombo
l senso della manovra è di proteggere economia e società dal conflitto ucraino: perché in Russia impero e regime cadono insieme
• – Redazione
Arresti e violenze della polizia. Dalla Ue minacce di sanzioni ai parlamentari che votano a favore
• – Redazione
Le dichiarazioni del presidente Udc ticinese Pietro Marchesi (insieme alla coppia Vannacci-Salvini) dopo il trionfo del non binario Nemo in Svezia e il nostro “premio di consolazione”
• – Aldo Sofia
Stampa / Pdf
• – Franco Cavani
La nascita dello Stato di Israele e l'autodeterminazione degli ebrei furono invece la 'Nakba' - la catastrofe - per i palestinesi, che la commemorano oggi
Anni fa, Ayman Odeh, avvocato e membro arabo-israeliano palestinese della Knesset nonché leader del partito Hadash, scrisse sul New York Times che la creazione dello Stato di Israele aveva rappresentato l’autodeterminazione per gli ebrei, ma anche una catastrofe – “nakba” in arabo – per i palestinesi. Non ripescò nella solita cesta degli eventi storici di cui si discute, non avanzò interpretazioni o recriminazioni sui fatti, si limitò a condividere una parte dolorosa e importante della storia palestinese e con essa quella della della propria famiglia. Scrisse, senza enfasi né vittimismo, che sarebbe stato giusto legittimare quel dolore e quel pianto, mentre Israele per legge vieta la commemorazione della Nakba nel giorno della sua fondazione.
D’altra parte, la dolorosa verità della Nakba rimanda all’inesorabile e inestricabile concatenamento degli eventi che ha caratterizzato la storia dell’umanità in ogni tempo. La Nakba palestinese, come tutte le Nakbe del mondo, accomunate in una sorta di doloroso flusso epocale, non è un evento storico isolato in quanto inseparabile da quello della fondazione dello Stato di Israele.
La storia è fatta a cerchi, uno dopo l’altro in una catena di anelli, che da un punto partono e a quel punto arrivano, per poi ricominciarne uno nuovo. Basterebbe ricordare il tragitto del cerchio precedente per sapere dove la linea va a cadere. Invece si sale, sale, sale fino a rallentare per un attimo la corsa, guardar le cose da lassù in cima e poi giù in picchiata, a capofitto al modo in cui gli altri, prima di noi, hanno sbattuto la testa nel punto più basso. Per questo appiccichiamo i giorni della memoria al calendario come le figurine di un album: tutti lì, una lista di eventi, purtroppo troppo spesso raccapriccianti.
Siamo intrappolati in una specie di involontaria coazione a ripetere, che Freud definiva compulsione, un processo di origine inconscia che ci porta a replicare, pur conoscendone la natura, esperienze che già in passato si sono rivelate distruttive. Jung considerava addirittura innata questa caratteristica umana manifestamente volta a reiterare i comportamenti del passato anche quando destinati con assoluta certezza ad allontanarci dal bene.
La memoria allora diventa una funzione più vana che efficace. Come spolverare un suppellettile a primavera e poi rimetterlo subito al suo posto, senza mai girarlo troppo per guardarlo da ogni lato e soprattutto tenendolo ben distinto dagli altri, e quel bello strato di polvere che si accumulerà sino alla primavera dopo. È così che finiamo per commemorare le tragedie della storia, ognuno pensando che la propria sia unica, che sia stata più rovinosa delle altrui, analizzandola con maniaca ossessione per il dettaglio.
Di quegli anelli della storia, ho avuto esperienza in famiglia: mio nonno, ebreo, lasciò Trieste e la sua casa nel 1938, perse tutto, portandosi in viaggio la sola illusione che sarebbe stato un rimedio temporaneo. Mio padre, palestinese, diventò un rifugiato con quello stesso abbaglio di momentaneità nel cuore. Nessuno dei due fece ritorno a casa.
In comune avevano il dramma di aver dovuto abbandonare il proprio paese e l’amarezza di rifugiati scampati a massacri li unì in momenti di condivisa commozione.
Shoà, termine ebraico giustamente preferito a olocausto in quanto richiama, quest’ultimo, l’idea di un sacrificio inevitabile, significa catastrofe. Proprio come Nakba in arabo. In entrambi i casi si tratta di tragedia provocata e voluta da esseri umani che non solo determina la perdita della vita di altri ma ne annienta la dignità. Si interrogava Primo Levi, se fosse ancora un uomo, colui che è costretto a vivere nel fango, che non conosce pace, che lotta per un pezzo di pane, che muore per un sì o per un no di qualcun altro. La vera tragedia è vagare su un pezzo di terra e non saper più che farsene dell’esistenza, rendersi conto della malvagità umana e di quel miserevole confrontare le dimensioni del proprio e dell’altrui dolore. Poco importa a quelli che camminano sfatti tra Rafah e Kan Younis, in cerca della tanto sospirata sicurezza che tra le macerie manca, se tra quelli che siedono al tavolo delle trattative siano i loro o gli altri ad aver minato la pace. A differenza delle vittime della Nakba del 1948 i Palestinesi di oggi, invece che unirsi all’infinita folla di coloro che di esodo ne hanno vissuto almeno uno della storia, sono dentro, intrappolati. Ma tra il partire e il restare, senza né cibo né acqua, umiliati, privati della propria umana dignità, puniti con la fame e la morte, senza aver neppure commesso un reato, non c’è differenza. Di catastrofe si tratta in entrambi i casi. Alle sollecitazioni di David Grossman a Guardare con gli occhi del nemico o di Azar Nafisi a Imparare a riconoscersi nel nemico mi capita di soffermarmi e domandarmi se la svolta non possa essere perfino più ampia: perché mai consideriamo nostro nemico un altro essere umano che come noi desidera la pace, aspira alla giustizia per se stesso e i suoi figli, sogna di essere libero e vivere? Non è forse che ci potrebbe essere compagno, nostro vicino di casa e addirittura fratello, se ci rendessimo conto che la sua pace è la nostra, e la nostra sofferenza la sua?
A prescindere dalle interpretazioni dei fatti, che scavano in cerca di giustificazioni alle più orrende pagine della Storia, come se sapere chi ha cominciato possa scagionarci dalla colpa, continuiamo a dimenticarci che siamo innanzitutto umani e che ogni qualvolta la sicurezza, la pace, la dignità di un altro essere umano è stata calpestata, non è stata la tragedia di quel solo uomo o del suo popolo, ma dell’intero genere umano.
Nell’immagine: giovani palestinesi ricordano la Nakba mostrando le chiavi che rappresentano le case che le loro famiglie hanno dovuto abbandonare
L’identità israeliana si costruisce nell’identificazione con le vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel concetto di genocidio. E dunque che il genocidio sia perpetrato...
Biden senza seri rivali per le primarie democratiche. Ma dov’è finita la sinistra, che dietro Bernie Sanders era sembrata così forte alle ultime elezioni?