Il Franscini “imbarazzato” e il Preventivo

Il Franscini “imbarazzato” e il Preventivo

Quel Ticino di sempre che si ritrova già nelle “Semplici verità sulle finanze” scritte 170 anni fa da Stefano Franscini


Silvano Toppi
Silvano Toppi
Il Franscini “imbarazzato” e il Preventivo

È pressoché fatale, e forse anche un poco consolatorio (male storico comune, mezzo alleviamento per tutti) di fronte al melodramma sul Preventivo 2024 (da cavalleria rusticana, sempre in attesa del grido conclusivo e obbligato: ”hanno ammazzato compare Turiddu”) riprendersi in mano antichi testi, fosse solo per scoprire un Ticino di sempre.

I deputati e tutti noi potremmo consolarci e consolare il paese ripercorrendo la storia economica e finanziaria del Cantone, dal 1803 ad oggi, leggendo quell’aureo libretto di Stefano Franscini che tutti citano per il titolo “Semplici verità ai Ticinesi sulle finanze”, (apparso anonimo a Lugano 170 anni fa, nel dicembre del 1854).Ne troveremmo consolazione anche dal punto di vista aneddotico. Allora, come oggi, nel bel mezzo di una crisi, ci si appassionava per la tassa sui cani e il giornale “Il Patriota” annotava: ”Colpito perfino di tributi quel fido animale che all’uomo le tante volte è conforto dolcissimo, sempre amorosa custodia”.

Ma il libretto del Franscini è una seria analisi storica ed anche strutturale delle finanze ticinesi. Le cifre di allora (attorno al milione di lire) oggi ci sembrano incredibili. In quegli anni (1848-1852) i termini del problema sono però identici a quelli attuali. Il Franscini risale alle origini. Mentre gli altri cantoni erano dotati di strutture fiscali e potevano costruire strade, scuole, apparato amministrativo e sopportare persino spese militari (allora a carico dei cantoni, ma controllate dalla Dieta con severe ispezioni federali), il Ticino parte da zero via zero. Economia povera, rurale, popolazione (unica ricchezza, si potrebbe dire) che emigra in massa altrove con la “rivoluzione industriale” e poi anche il generale austriaco Radetzky che ci rifila per rappresaglia dalla Lombardia seimila emigranti ticinesi, seimila disoccupati.

Scrive il Franscini: “Le spese riuscivano troppo maggiori di quanto era previsto. Le rendite non bastavano a gran pezza, si ricorreva a prestiti forzati e si gettarono le prime basi di quel debito pubblico, che doveva poi crescere tanto e arrecare innumerevoli imbarazzi”. Pur analizzando nei particolari tutte le spese e le entrate non accenna però che, nel 1848, per uscire dagli “imbarazzi” si trova la soluzione di emergenza, facile, più alla mano: si incamerano i beni delle Corporazioni religiose. Si sofferma invece sulle espropriazioni dei beni conventuali del 1812, biasimando questa volta severamente la “svendita a prezzi meschini” di quegli immobili (che dovevano essere destinati a utilità pubblica) agli immancabili speculatori privati.

Dai conventi  e prezzi meschini ai… globalisti

Vien voglia, irrefrenabile, di chiosare dapprima con una tipica costante ticinese. E cioè: trovare da qualche parte, fuori da te o dal tuo assetto economico-finanziario, ciò che ti può aiutare e togliere dal tuo imbarazzo (imbarazzo che ha anche come sinonimi: imbroglio, intrigo, impaccio, incomodo). Così, ridefiniti e ricollocati nei modi e nei tempi, potremmo tradurre “corporazioni religiose” in “globalisti” o “ricchi residenti stranieri” (con la differenza che le prime si espropriavano, i secondi invece vanno attirati o adescati o mantenuti riducendogli o condonandogli l’imposizione fiscale, regalandogli così bellezze e territorio). Oppure anche in “frontalieri”, rivenduti più come soggetti fiscali che come lavoratori indispensabili e preziosi (tanto che, considerati da alcuni che hanno sempre per questo il vento in poppa, come “ratti” da scacciare, oggi sono diventati “ingranaggi” in grado di farci saltare più di una struttura… ma continueremo a votare chi lo vuole). Quindi, tradurre anche  “svendita a meschini prezzi” in grandi traffici  edili, immobiliari, soprattutto a chi porta o trafuga denaro dall’estero (che è poi la famosa “economia a rimorchio” del professor Angelo Rossi).

Il tesoriere cantonale che si butta nel Ceresio

Il Cantone ricade da una crisi finanziaria all’altra “Nel 1822 già si era in stato di crisi finanziaria. Alle spese stradali si erano aggiunte quelle militari. Essendo stata subita con pessimo successo un’ispezione federale, ne seguirono rimprocci ed ordini incalzanti della Dieta, quindi necessità di dispendiose provvisioni”. Anche qui le analogie ci sono ed è superfluo elencarle. È il ritorno dell’eterna storia, troppo spesso distorta, tra flussi e riflussi finanziari (e non solo) tra Confederazione e Cantone. Risentiamo la recente intervista a Sergio Rossi sulla perequazione finanziaria: solo per aggiungere, opportunamente, da che parte stanno alle volte le pretese e le  responsabilità.

Nel 1830 la rivoluzione o riforma che si usa chiamare, gonfiandosi  il petto e appropriandosi meriti di partito storico, come “il primo grande amore del popolo ticinese”, scrive il Franscini: ”La riforma era appena proclamata dal Gran Consiglio e acclamata dal popolo, che già si era in stato di crisi finanziaria. Il tesoriere cantonale si era gettato nel Ceresio; e la delegazione mandata a riconoscere lo stato della cassa l’aveva trovata vuota… A stento si provvide ai bisogni più pressanti, procacciandosi  mutui di qua e di là”.

Oggi è chiaro che anche di fronte a disastrose trovate (queste, chi sa perché, mai definite “ideologiche”) che vogliono rimettere le casse a modo senza mai riuscirci, nessuno vien buttato nel Ceresio, anche perché tutti irretiti e impantanati in una realtà di fatto che non lascia scampo: o ti indebiti o muori.

La domanda che rimane

È interessante (e forse, considerato come si mettono oggi le cose, anche “politicamente rivoluzionario” o perlomeno controcorrente) riscoprire oggi ciò che il professor Francesco Kneschaurek (dell’Uni di San Gallo), su incarico del Cantone, scrisse nel dimenticato rapporto sullo “Stato e sviluppo dell’economia ticinese”(1964), proprio accennando anche a quel Franscini: ”Deve essere considerata la questione se anche il C. Ticino non debba in futuro realizzare una tassazione la quale si situi ancora più marcatamente al di sopra della media svizzera” (pag. B65). Contrariamente a quanto suggeriva invece una precedente perizia, pure comandata, (del prof. Keller), divenuta poi verbo assoluto da applicare ai possidenti. Verbo che non ci ha però sinora tolto, anzi ha aggravato, la situazione già “fransciniana”.

Rimane  sempre infatti l’interrogativo che un altro professore (il prof. Basilio Biucchi, dell’Uni di Friborgo) si poneva (nel 1979!) come se ci trovassimo di fronte a qualcosa di endemico o a una sorta di DNA del Cantone Ticino (indicandone però implicitamente i motivi reali): “Perché la storia politica, economica e finanziaria del nostro paese si muove sempre, senza uscirne, nel giro vizioso dell’economia debole e delle finanze statali dissestate?” A ben pensarci, è la domanda che non ci si pone, preferendo cavalcare rusticanamente la contabilità della partita doppia.

Nell’immagine: Franscini imbarazzato (espressione modificata con uso dell’IA)

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