Come quelle ticinesi, anche le valli periferiche del Grigioni hanno avuto, nel corso dei secoli, in entrata e soprattutto in uscita, una loro storia migratoria. Oggi l’attualità editoriale ci porta in Bregaglia, il cui “esule” più “popolare” è certamente Alberto Giacometti (1901-1966), tanto da finire, nel 1998, sul recto dell’ottava serie della banconota da 100 franchi.
Tra gli artisti più riconoscibili, imitati, e dunque più pop di tutti i tempi, le sue opere continuano ad inanellare primati di vendita: Christie’s o Sotheby’s, non fa differenza. Nel 2015 il bronzo Uomo col dito puntato (del 1947, di cui esistono 6 esemplari) venne venduto da Christie’s per 141.3 milioni di dollari, diventando così la scultura più pagata di tutti i tempi. Giacometti è successore di sé stesso nella speciale classifica: nel 2010 un altro suo bronzo, L’uomo che cammina (1961), era infatti stato battuto per 104.3 milioni di dollari. Il podio lo chiude ancora lui con Il carro (1950, 6 esemplari), venduto, nel 2014, per 101 milioni.
Di Alberto Giacometti hanno scritto in molti: segnalo qui soltanto i due volumi del ticinese Jean Soldini (da anni “esule” anch’egli a Marsiglia): La somiglianza introvabile (Jaca Book, 1998; introvabile, ormai, anche il libro) e “Alberto Giacometti, lo spazio e la forza, Ed.Mimesis, 2016 ).
In Svizzera dobbiamo alla casa editrice Scheidegger&Spiess di Zurigo i contributi più importanti, a cominciare dal 1962, quando venne pubblicato – primo volume in assoluto della sua storia – il saggio che a Giacometti dedicò, nel 1957, Jean Genet, illustrato da 11 ritratti che lo stesso Ernst Scheidegger, fotografo di professione, fece all’artista nel suo atelier parigino del XIVème, 46 di rue Hyppolite Maindron. I due si erano conosciuti nel 1943 a Maloja, dove Giacometti, rientrato a Ginevra durante la guerra, si recava spesso e dove Scheidegger prestava servizio militare.
Oggi, a oltre 60 anni di distanza, viene pubblicato, in contemporanea e in tre lingue (tedesco, inglese e italiano), Il tempo passa troppo presto. Lettere alla famiglia, la cui edizione italiana esce per i tipi di Casagrande Bellinzona. Si tratta di un’ennesima iniziativa della Fondazione Giacometti, con cui – lo indica il titolo – vengono date alle stampe 91 lettere scritte dall’artista tra il 1916 e il 1964. La scelta è opera dell’ultimo figlio, Bruno, architetto (suo l’Hallenstadion di Zurigo), deceduto ultracentenario nel 2012.
Un epistolario è – in taluni casi maggiormente, in altri meno – tra le fonti importanti da cui attingere per ricostruire compiutamente la vita e l’opera di un artista. L’altra è, evidentemente, la sua opera stessa. Ma se quest’ultima scaturisce anche da esperienze biografiche, ecco che i carteggi con familiari, amici, colleghi, addetti ai lavori, diventano documenti imprescindibili.
In questo senso, ancora più preziosa sarà una prossima pubblicazione, già annunciata dalle stesse Edizioni Casagrande, quella del corpus integrale (seppur ancora incompleto) delle lettere di Alberto Giacometti alla famiglia (circa 1’500), di cui questa edizione fresca di stampa diventa il goloso antipasto. Goloso poiché proprio in queste lettere egli si racconta, informando i genitori Annetta e Giovanni, i fratelli Diego (che lo raggiungerà a Parigi nel 1925) e Bruno, e la sorella Ottilia, parlando dei suoi studi, dei suoi progressi, dei luoghi che frequenta, degli incontri che vi fa (per dare un’idea, l’accurato indice dei nomi menziona, tra molti altri, Louis Aragon, Jean Arp, Brancusi, Max Ernst, Matisse, Miro, Picasso, Sartre, Zadkine. Quella epistolare è una forma comunicativa che Alberto aveva ereditato dal padre, noto pittore che, a sua volta, scriveva ai figli sin dalla loro più tenera età (una lettera di Giovanni ad Alberto, del 22 novembre 1919, è pubblicata alle pp. 234-235; il ragazzo stava frequentando una scuola commerciale a Basilea). Anche la madre, Annetta, da lui amatissima, mantenne con Alberto un carteggio che si interruppe solo con la sua morte, nel 1964, due anni prima del decesso dello stesso Giacometti.
Abbiamo tra le mani un volume che si rivolge non solo agli specialisti, ma a un pubblico più vasto, interessato a ritrovare, nelle sue pieghe più private, l’artefice-creatore di quelle figure alte, magrissime, diventate – si dice oggi – icone dell’arte del XX° secolo.
La lingua di Giacometti è essa stessa familiare, immediata, non povera ma tutt’altro che raffinata: il vocabolario è limitato, la formulazione e la sintassi talvolta scricchiolano, il dialetto della Bregaglia (bargaiott) affiora spesso. “Le lettere di Alberto” annota il curatore del volume Carmine Di Crescenzo “sono scritte a mano, di getto, di preferenza in un momento di pausa dal lavoro o la sera tardi, nell’atelier o al tavolino di un caffè. La loro grafia, che può essere nervosa o irregolare, riflette quindi la stanchezza anche fisica dell’artista”.
Esse si rivolgono comunque a una famiglia tutt’altro che digiuna di cultura artistica. Inoltre, avverte ancora il curatore nell’Introduzione (p. 26), “per apprezzare la lingua di queste lettere, bisogna ricordare che, oltre a essere cresciuto tra l’italiano e il dialetto della Val Bregaglia, Alberto Giacometti ha studiato in un collegio germanofono a Schiers e ha poi trascorso la maggior parte della sua vita a Parigi. Questo spiega il multilinguismo e i continui scambi tra una lingua e l’altra, tanto più evidenti in comunicazioni private e familiari come queste”.
Tra i pensieri più ricorrenti, vi è quello legato al passar del tempo, alla rapidità con cui ciò accade, al tempo che il lavoro sottrae agli affetti, alle amicizie, alle letture e che la cura degli affetti toglie agli impegni: una vera ossessione. Da Parigi, il 10 ottobre 1941, scrive alla mamma: “E oggi mi ricordo in questo momento ho già 40 anni, è terribile come il tempo passa ma come fare? Ma non credere mamma che dico sempre che vengo e non lo faccio, quest’inverno saremo assieme e se vuoi andremo a Maloggia malgrado tutto sono sempre più impaziente di venire”.
Fedelissimo specchio del libro, il titolo lo ritroviamo, quasi identico o con varianti minime, in decine di occasioni. Nella formulazione esatta, Il tempo passa troppo presto, lo troviamo al 1° giugno e al 3 novembre 1955.
In contemporanea, sempre domani, si apre al MASI l’esposizione Faccia a faccia. Giacometti, Dalí, Miró, Ernst, Chagall. Omaggio a Ernst Scheidegger, curata da Tobia Bezzola e Taisse Grandi Venturi, realizzata in collaborazione con il Kunsthaus di Zurigo e l’Archivio del grande fotografo svizzero, nato nel 1923 e deceduto nel 2016, amico e ritrattista principe dello stesso Giacometti. La mostra è visitabile fino al 21 luglio 2024.
Nell’immagine: un momento dell’intervista della RSI