Di Sanremo fanno parte i fiori quanto i detrattori, in entrambi i casi un contorno capace di dare colore a una kermesse-monstre che, lo ammettiamo, non si guarda per meri motivi qualitativo-musicali. Al di là di brani che domineranno le classifiche dei prossimi mesi (un paio di nomi per tutti, Mahmood e The Kolors) fianco a fianco con altri destinati a entrare per direttissima nel calderone senza fondo dei “dimenticabili” (un nome per tutti, i Jalisse), Sanremo si presenta, e lo ha sempre fatto, anche come molte altre cose. Passerella privilegiata per l’alta moda italiana (che nel connubio con la musica sta vivendo una grande fioritura) e sede di scandali veri o presunti (dal suicidio di Tenco alle rose di Blanco) il Festival è soprattutto una cassa di risonanza politica. E se nel 2020 Achille Lauro richiamava l’attenzione di critica e pubblico su questioni squisitamente gender – ancor prima che musicali – quest’anno Ghali ha lanciato un appello politico che ha fatto sentire in obbligo l’amministratore delegato della Rai Roberto Sergio (nel frattempo messo sotto scorta) ad una perentoria risposta.
La frase “stop al genocidio” pronunciata dapprima sul palco e poi a Domenica In, la nota emissione condotta da Mara Venier, da parte del giovane italiano di radici tunisine Ghali Amdouni (classe 1993), è stata solo l’apice di un messaggio politico che iniziava con un canto in arabo e finiva con un’(intensa) interpretazione dell’Italiano di cutugnana memoria. Lo sconcerto dell’ambasciatore israeliano in Italia, che di genocidio non ha voluto sentire parlare (sebbene Ghali non abbia specificato a chi si riferisse) è solamente servito a corroborare una classe politique dirigente che mal volentieri si sente bacchettare o anche solo richiamare in ambito di diritti umani, dovendo addirittura sottoporsi a esercizi di auto-coercizione quando si tratta di – eventualmente – rinnegare il fascismo.
Ghali (e con lui anche Dargen D’Amico) sono stati “ridimensionati” nel loro messaggio dalla lettura in diretta – da parte, appunto, di Mara Venier – di un comunicato dell’amministratore Sergio: “Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta”; in qualche modo corroborando uno schieramento che ricalca chiaramente quello del governo in carica, particolarmente attivo nel decidere cosa sia giusto e cosa sbagliato (dire, e a volte anche fare).
Eppure, a “quelli come Ghali” dovremmo prestare attenzione, perché – volenti, noi, o nolenti – il nostro futuro passerà anche da lì. Le periferie delle città italiane, infatti (un po’ come accade in Francia), sono abitate in gran parte da ragazze e ragazzi i cui genitori hanno un passato migratorio, e più precisamente provengono dal Nord Africa.
Non stupisce, dunque, se in una condizione che molto spesso si avvicina al degrado, il senso di insofferenza e la mancata integrazione di molta di questa gioventù, finisca naturalmente per venire incanalata in un genere musicale che, esattamente mezzo secolo fa (era il 1973, ed era a New York), nasceva come espressione di protesta, il rap – con tutte le ramificazioni successive, dalla trap alla drill.
Ai ragazzi che imboccano la strada dell’hip hop, però, resta una scelta, che è quella dei contenuti.
Si può infatti scegliere di perpetuare la violenza e il degrado subiti osannando la vita di strada (la rue), elevando i soldi (il cash) a misura di ogni cosa, riducendo l’amore a sesso prevaricatore (con le bitches, ovviamente) e mettendosi in posa a mo’ di narcos con tanto di Uzi e Kalashnikov, un po’ come hanno fatto Baby Gang (al secolo Zaccaria Mouhib) e Simba la Rue (al secolo Mohamed Lamine Saida), entrambi in guai seri con la giustizia italiana.
Oppure si può fare come Mahmood (che non nasce propriamente come rapper ed è figlio di un’italiana) e Ghali, che attraverso le proprie canzoni e il proprio vissuto tentano di parlare a noi occidentali, svelando le complessità e le esigenze di un’identità in divenire, destinata però a diventare realtà completa al più presto con la prossima generazione. Un’identità di questo tipo, proprio per la sua natura, ha in sé la consapevolezza delle concessioni, ossia di quello che tutti noi saremmo civilmente chiamati a fare (o a non fare) al fine di costruire una società equa e più giusta, dove sia possibile trovare un posto per tutti, ma anche dove violenza e sopraffazione non debbano più trovare posto, né nelle canzoni, né nei club dove vengono proposte.
Sarebbe forse ora che lo capissero anche tutte quelle destre che vedono nello scoglio che ferma il mare (mutuato dal grande Battisti) una soluzione giusta quanto improbabile, per quell’onda continua che, giorno dopo giorno, mese dopo mese, restituisce alle coste d’Europa chi sogna un futuro migliore. Rettificare dunque le parole di un figlio di immigrati che chiede la fine di ogni genocidio attraverso una televisione di Stato e alzare i manganelli – della polizia di quello stesso Stato – su chi quelle parole le voleva rafforzare come è accaduto a Napoli martedì, è la vera disfatta, il momento in cui abbiamo perso tutti.
L’Italia di parte del governo in carica in qualche modo ha fatto capire alle proprie figlie e ai propri figli (in un momento di drammatico calo demografico) che così non si fa, che la libertà di pensiero non va per forza difesa a tutti i costi, soprattutto quando sposa quanto sta di più caro ai dimenticati, a chi la voce non ce l’ha.
Dopo Angelina Mango, vincitrice della 74esima edizione della kermesse internazionale, e Ghali, che con le sue parole e il suo agire sempre ammantato di grazia ha scosso molte coscienze, abbiamo anche il grande perdente, che è il Governo italiano, oggi più che mai aguzzino sull’informazione del servizio pubblico radiotelevisivo (il genocidio in senso lato non dovrebbe suscitare orrore per definizione?), cui si aggiungono tutti coloro che di fronte alla verità, e di conseguenza a violenza e giustizia, preferiscono un’ideologia che nel suo immobilismo, oltre a essere bieca è sempre più uguale a sé stessa.
Nell’immagine: c’è tragedia e tragedia. “Angelina Mango ritrova la scatola del trofeo di Sanremo: la sorpresa in diretta a Stasera c’è Cattelan”