Quel mercato storto della salute
Bisognerebbe sostenere le infrastrutture per la salute ricorrendo al finanziamento pubblico, così come si fa per altri settori, oltretutto meno coessenziali alla vita umana
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Bisognerebbe sostenere le infrastrutture per la salute ricorrendo al finanziamento pubblico, così come si fa per altri settori, oltretutto meno coessenziali alla vita umana
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Bisognerebbe sostenere le infrastrutture per la salute ricorrendo al finanziamento pubblico, così come si fa per altri settori, oltretutto meno coessenziali alla vita umana
A conti fatti e ripetuti ci troviamo con la constatazione che non è vero niente. La concorrenza non esiste, i premi aumentano quasi per legge, la ricerca della cassa malati più conveniente evapora. Esiste anche un grosso squilibrio tra cantone e cantone, quasi che la salute, come bene, abbia anche un marchio d’origine territoriale. È ad esempio più preziosa, più richiesta e quindi più costosa in Ticino che altrove. E il monopolio di fatto già esiste: è quello delle casse malati che si intendono sempre tra di loro sull’aumento dei premi, con l’impotenza dell’autorità di controllo a modificare qualcosa.
Ci si accorge allora che per la salute il teorema del mercato libero e concorrenziale non sta in piedi, non funziona, è controproducente, è storto. Anche per un motivo molto semplice, che è il rovescio di quanto si crede in economia: nel settore della salute non è la domanda che crea l’offerta ma è l’offerta che crea la domanda. Troppi medici, troppi ambulatori, troppi ospedali e letti di ospedali, troppe specializzazioni generano più malati veri o potenziali; o più consultazioni, più interventi, più ospedalizzazioni. Una concorrenza diversa e a suo modo, che produce più consumi e dunque più spese in quel settore.
A dirla così sembra tuttavia paradossale perché è quello che tutti vogliono e cioè: la miglior situazione per avere un buon servizio comune sempre pronto, esteso, immediato, efficiente. E proprio là dove c’è la cosa più coessenziale e vitale per un essere umano, per l’uomo-cittadino: la sua salute.
Dovrebbe però anche essere la dimostrazione che quello della salute è un settore che non si può trattare alla stregua di un mercato qualunque e che ogni componente di quel mercato non è un bene a sè stante o qualunque, da valutare con il metodo industriale dei costi di produzione. Perché dentro ognuno di essi c’è molto di più, alle volte anche incalcolabile, non mercificabile.
Per ognuno di essi siamo anche disposti a dare quel che ci vuole perché ci dà o promette la salute, perfino quando non ne siamo certi. E siamo disposti – anche se poi protestiamo per i premi assicurativi che aumentano – ad accettare tutte le innovazioni mediche, di medicinali o tecnologiche, che ci diagnosticano e ci rimettano in sesto e che non possono essere se non costose e sempre più costose.
Se ne può dedurre che è giusto e opportuno controllare e cercare di razionalizzare i costi come avviene per ogni produzione, senza penalizzarne la qualità e quindi con perdita di valore della prestazione È però altrettanto da irrealisti o da illusionisti far credere che i costi della salute possano diminuire e quindi con essi i premi delle casse malati.
A questo punto sono due i problemi che realisticamente si pongono: stabilire delle priorità all’ordine delle spese; sostenere le infrastrutture di sostegno per la salute, ricorrendo al finanziamento pubblico, né più né meno come si fa con altri settori, che sono tra l’altro molto meno coessenziali alla vita umana, se non addirittura nocivi alla salute umana. La priorità assoluta alle spese per la salute e la difesa della salute (vale quindi anche per il discorso ambientale, perché è assurdo disgiungere la salute dalla protezione dell’ambiente) non è da dimostrare. È questione di vita, di meno vita o di morte.
È altrettanto pressoché superfluo indicare settori dove si investono miliardi senza remore e per obiettivi immaginari o pretestuosi, comunque meno reali o potenzialmente più fatali o irrazionali rispetto a quelli investiti nel settore della salute o della prevenzione e cura delle malattie.
Facciamo un esempio (anche se si dirà subito che è squilibrato o “demagogico”, ma poco importa perché rimane illuminante).
Si calcola (ufficialmente) che i costi per la salute ammontano in un anno a 91 miliardi di franchi. Si calcola (sempre ufficialmente) che i costi per i trasporti stradali ammontano in un anno ad una somma quasi identica, 90 miliardi di franchi. Con le nuove proposte del consigliere federale Rösti aggiungiamone 5 altri. I costi stradali aumentano in media ogni anno del 4 per cento; sarebbero insostenibili per ogni utente (11 mila franchi a testa) se non ci fosse una copertura dei costi infrastrutturali da parte dei poteri pubblici, Confederazione e cantoni (ritenuta, sempre in documenti ufficiali, addirittura del 110 per cento).
Se anche nel settore della salute buona parte dei costi infrastrutturali (strumenti fondamentali di alta tecnologia medica, ad esempio) fossero assunti alla stessa stregua dall’ente pubblico, come avviene per le infrastrutture della mobilità stradale (o, potremmo anche aggiungere, come avviene anche per l’ampio finanziamento del macchinario agricolo, senza neppure pensare ad un uso collettivo tra aziende locali), si avrebbe una possibilità certa della riduzione dei costi nella gestione degli ospedali, per i pazienti, per le casse malati.
D’accordo, si dirà che è solo rendere pubblico un costo (mediante le imposte). Si guadagnerebbe però in efficacia e solidarietà. E perché si può farlo per la circolazione stradale e non per la… circolazione sanguigna?
A questo punto il discorso dovrebbe anche essere portato, fosse solo con criteri economici, sulla redditività. Ciò che non si fa mai. Un investimento nella salute ha una redditività, con continuità, cento volte superiore a un investimento in una infrastruttura stradale (la quale finisce invece per generare costi per le conseguenze su ambiente e salute, che non vanno disgiunti, valutati in un rapporto della stessa Confederazione in 10 miliardi di franchi!
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