Abbiamo visto “Supernova”, il documentario sulla strage di Hamas del 7 ottobre
Il film è stato proiettato per la prima volta in Italia al Teatro Franco Parenti di Milano
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Il film è stato proiettato per la prima volta in Italia al Teatro Franco Parenti di Milano
È la prima volta che viene proiettato in Italia il documentario Supernova. Il massacro del festival [qui il trailer], circa 60 minuti di immagini scioccanti estratte dai telefonini dei partecipanti alla grande festa nel deserto che il 7 ottobre si trovò in prima linea quando Hamas sfondò il confine di Israele. Ed è la prima volta che la cronaca di quel giorno è così minuziosamente ricostruita. Contrappuntati con i video dei cellulari, gli estratti delle telecamere GoPro di cui i terroristi si erano dotati e con le testimonianze dei sopravvissuti, l’orrore ancora negli occhi, nelle voci e nelle facce. Un giorno che era iniziato di festa ed è finito nel sangue. Che forse per molti non finirà mai. Un giorno di quelli che segnano un confine, un prima e un dopo.
Chi ha visto Supernova – molto esponenti della comunità ebraica milanese, ma non solo, accorsi all’appello di Andrée Ruth Shammah – esce in silenzio dal Teatro Franco Parenti di Milano: malgrado siano state accuratamente evitate le immagini di sangue e violenza più estreme, ciò che si vede agghiaccia. Fuori dal teatro, qualche poliziotto in funzione preventiva, ma malgrado le tensioni di questi giorni, non c’è stata nessuna contestazione, nessuna protesta.
I registi Duki Dror e Yossi Bloch, nell’immediato della tragedia, hanno raccolto e selezionato una gran quantità di materiale video con cui hanno ricostruito le fasi di un massacro che fu sottaciuto e non sottovalutato nei primissimi giorni. I cellulari di cui tutti sono muniti e da cui nessuno si separa documentano la strage come mai sarebbe stato possibile in passato.
E sono immagini strazianti, anche quelle che ancora raccontano la festa gioiosa, il pacifico rave nel deserto, con cui si apre il film: 3500 giovanissimi, dopo avere danzato tutta la notte, stanno aspettando il momento magico dell’alba. E straziano ancora di più perché noi ora sappiamo cosa avverrà dopo. Nessuno sospetta niente, solo una voce esprime il dubbio per essere così vicini a Gaza. «È il confine più protetto del mondo» è la risposta. È quasi come in un brutto film horror, con le vittime che si consegnano al mostro inconsapevolmente e inesorabilmente. E tu vorresti gridare «scappa!».
Poi esplosioni in lontananza: razzi solcano il cielo. C’è chi pensa alla stranezza di fuochi d’artificio in piena luce, e chi per istinto si protegge sotto un tavolo. Gli organizzatori lanciano l’allarme: si deve evacuare. Ma la gente non capisce, si aggira spaesata, traccheggia, è incerta. Quando il pericolo si palesa – e sono uomini armati che sparano – è troppo tardi. Le auto imbottigliate su una stradina diventano trappole dove si viene uccisi a sangue freddo e a bruciapelo. Inizia la grande fuga scomposta e disperata. Seguiamo il racconto di alcuni ragazzi in fuga: due fidanzati sopravvissuti (viene da dire) guardandosi negli occhi e che ancora continuano a stringersi tra loro disperatamente, una coppia di amiche, una giovane donna che il ragazzo invece l’ha perso durante la fuga.
C’è lo strazio del padre di due rapiti (lei poi verrà liberata a novembre) che dei figli ha solo le voci, le telefonate in cui gli raccontano passo passo quanto sta loro capitando. Il poliziotto che si avventura oltre i posti di blocco, verso il luogo del festival e per primo si affaccia sul terreno del rave scoprendo cadaveri ovunque. Chi si è salvato nascosto nell’urina e nelle feci dei bagni mobili e chi seppellendosi sotto i cadaveri dei morti. La corsa disperata di tanti nel deserto, verso dove nessuno sa, visto che ogni figura che si staglia potrebbe essere (e spesso è) quella di un assassino. «Siamo in guerra», dice una ragazza: e il tono è stupefatto. Il contorno del massacro non era chiaro in quei momenti. Quando arriverà, il bilancio sarà di oltre 350 uccisi al Festival, ma più di 1200 nei kibbutz. «Pensavamo di essere l’obiettivo. Solo dopo abbiamo saputo che eravamo la ciliegina sulla torta», la mesta conclusione per voce di uno dei sopravvissuti.
Nell’immagine: dopo il massacro
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