Ageismo, è allarme sulla discriminazione verso gli anziani
Non ci sono solo sessismo e razzismo da combattere. La società moderna penalizza anche le persone più avanti con gli anni. E secondo gli studiosi sta diventando una vera emergenza sociale
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Uno spettro s’aggira per l’Europa, e ha un nome che forse non avete ancora sentito, pur trattandosi di un problema che prima o poi riguarda tutti: è l’ageismo, ovvero la discriminazione basata sull’età, che penalizza gli anziani, anche in ambiti cruciali come la sanità, erodendo la solidarietà tra generazioni. Secondo l’ultimo report globale dell’Onu sul problema, una persona su due ha comportamenti ageisti: non stupisce quindi che, in sostanza, il fenomeno sia socialmente accettato e non ritenuto riprovevole quanto il razzismo o il sessismo. E tuttavia, come si sta rendendo conto la scienza, chi ne è vittima tende a vivere di meno, a essere più colpito da malattie cardiovascolari e declino cognitivo, e ad avere un recupero più difficile dalla disabilità.Quella che emerge, al di là dei cliché sugli anziani, visti perlopiù come benevoli Yoda dispensatori di consigli oppure bisbetici da evitare, è insomma un’emergenza sociale seria, che tende a ingrandirsi con l’aumento dell’età media: oggi oltre il 21 per cento della popolazione europea è over 65 (+5 per cento rispetto all’inizio del millennio) e il numero degli over 80 è quasi raddoppiato, arrivando al 6 per cento.
Per questo il 2024 ha già visto due importanti iniziative pubbliche: il Manifesto europeo contro l’ageismo, presentato a fine maggio dalla Fondazione Longevitas e altre 21 organizzazioni al Parlamento europeo, nel quale si chiede all’Ue e ai governi di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, di creare programmi di mentoring che connettano le diverse generazioni, di rendere la sanità più a misura di anziano e di destinare fondi adeguati alla ricerca su case ed effetti dell’ageismo. Un mese prima è stata pubblicata sul Journal of Gerontology la Carta di Firenze contro l’ageismo sanitario, documento coordinato da Andrea Ungar, presidente della Società italiana di Gerontologia e Geriatria con un panel internazionale di esperti dell’Oms, dell’Università di Yale e del Karolinska Institute. «Nella Carta chiediamo, tra le altre cose, che gli ospedali includano ambienti più accoglienti per gli anziani, dove i pazienti non siano costretti a rimanere isolati e immobili a letto», dice l’esperto.
Oggi non è affatto raro che l’anziano che si ricovera entri autonomo in ospedale e ne esca disabile, proprio perché non riceve adeguati supporti. «La Carta raccomanda poi che al Pronto Soccorso gli anziani siano trattati e dimessi il più rapidamente possibile, perché una permanenza prolungata aumenta il loro rischio di deterioramento. Oggi al Ps, a parità di gravità della condizione, si trattano prima i più giovani anche se per chi è in età avanzata il rischio di peggiorare di ora in ora è maggiore», spiega Ungar. «Inoltre sollecitiamo il Servizio sanitario nazionale a sostenere la medicina preventiva in ogni fascia di età. E auspichiamo trial clinici più inclusivi: gli anziani dovrebbero partecipare alle sperimentazioni cliniche che testano cure e interventi potenzialmente utili per loro».Il popolo senior merita più rispetto, anche per il suo peso demografico: «In Italia abbiamo 14 milioni di over 65, e di questi 8 milioni sono over 75», osserva il geriatra. «Spesso il medico ha un pregiudizio che lo porta ad attribuire dei disturbi semplicemente all’età, presentandoli al paziente come se fossero ineluttabili, invece di indagare più a fondo sulle cause, che possono essere diversissime e magari affrontate efficacemente».
I pregiudizi sugli anziani possono danneggiarne la salute, lo dicono trent’anni di ricerche della maggiore esperta mondiale sull’argomento: Becca Levy, docente di epidemiologia alla Yale School of Public Health e autrice del saggio Breaking the age code: how your belief about aging determine how long & well you live (Decifrando il codice dell’età: come le tue credenze sull’invecchiare determinano quanto a lungo e bene vivi). «I miei studi suggeriscono che gli anziani stessi che hanno più pregiudizi negativi sull’età tendono a vivere, in media, ben 7,5 anni in meno di chi ha una visione più rosea della vecchiaia. E che chi cova stereotipi negativi sugli anziani da giovane ha il 50 per cento in più di probabilità di trascurarsi ed essere ospedalizzato da anziano», spiega la professoressa.
«Ci sono tre modi in cui assorbire e diffondere i cliché ageisti può nuocerci. Il primo è psicologico: se si ritiene ineluttabile peggiorare con l’età, si è demotivati verso attività che giovano alla salute, come camminare o andare in piscina. Un secondo aspetto è fisiologico: grandi studi come il Baltimore longitudinal study of aging mostrano che chi ha più credenze negative sull’età ha più biomarker legati all’Alzheimer, come le placche amiloidi, e negli anni è più soggetto degli altri a perdite di volume nell’ippocampo e incontra quindi più difficoltà cognitive. Il terzo livello è quello comportamentale: chi si aspetta una vecchiaia con la salute compromessa, è meno motivato a misure preventive come assumere i farmaci che gli sono stati prescritti».
Le convinzioni possono influire dunque sull’invecchiamento: «In uno studio che ha seguito persone dai vent’anni in avanti, abbiamo visto che chi da giovane immagina la vecchiaia sotto una luce positiva, a 60 anni ha un rischio di eventi cardiovascolari dimezzato rispetto a chi invece aborrisce la vecchiaia». La ricetta per invecchiare meglio sembra quindi semplice: rifuggire la stigmatizzazione dell’anziano. «Purtroppo non è affatto facile, perché la società ci tempesta fin da piccoli di messaggi ageisti, anche per spingere l’enorme business dell’anti-aging», puntualizza Levy. Ma l’umanità non è sempre stata ageista: l’anziano è diventato un facile bersaglio quando la sua funzione nell’accumulo e trasmissione di conoscenza ai più giovani è diventata irrilevante, ovvero dall’invenzione della stampa in poi. A questo si è aggiunto, secondo la studiosa femminista Margaret Morganroth Gullette, il fatto che la rivoluzione industriale necessitava di lavoratori giovani e mobili che si addensassero in città, mentre gli anziani restavano nelle campagne: una prima grande separazione fisica che poi è diventata anche, in un certo senso, mentale e affettiva. Con tante conseguenze tra cui una che sa di tragica ironia: col passare degli anni, assommando le più varie esperienze, diventiamo più unici, eppure l’ageismo ci intruppa in una macrocategoria che viene trattata dalle persone meno sensibili in modo generico, sbrigativo e più o meno umiliante. Come rimediare? «Promuovendo più occasioni di incontro intergenerazionale: il contatto con chi appare diverso è un toccasana per guarire dagli stereotipi», spiega Levy.
«Io raccomando una strategia in tre fasi: la prima prevede esercizi di consapevolezza del proprio ageismo, come scrivere le prime cinque parole che vengono in mente se si pensa a un anziano, o prendere nota di come vengono rappresentati i “senior” nei media. La seconda fase prevede esercizi di “spostamento della colpa”: se un anziano perde le chiavi o scorda un nome, invece di pensare “è normale, è la vecchiaia” dovremmo sforzarci di capire se ci siano altre cause: magari quella persona aveva fretta, o qualcosa l’ha distratta. Un altro esercizio utile contro gli stereotipi sull’età è chiedersi: “Se quel comportamento avesse come bersaglio le donne, sarebbe considerato sessista?”. Questo, grazie al fatto che siamo giustamente vaccinati contro il sessismo, è un buon criterio per smascherare e combattere l’ageismo. Quando un’azienda inizia a licenziare i dipendenti senior, per via della normalizzazione dell’ageismo pochi si ribellano. Ma se l’azienda, invece, decidesse di licenziare tutte le donne diventerebbe subito ovvio il carattere discriminatorio della decisione».L’ultima fase della strategia è smontare i falsi miti con un sano fact-checking. «A chi dice che i boomer non si curano del pianeta, basta rispondere che gli over 65 riciclano più di ogni altra fascia d’età», osserva ancora la studiosa. «A chi considera la demenza come un attributo comune dell’età avanzata basta dire che solo il 3,6 per cento di chi ha tra 65 e 75 anni ne è affetto, e che invece diverse capacità cognitive aumentano con gli anni, come la memoria semantica e la capacità di tenere conto di più punti di vista diversi e di risolvere conflitti. A chi pensa che i lavoratori attempati siano poco produttivi si possono mostrare gli studi che mostrano come i “senior” abbiano meno assenze per malattia, tendono ad avere un’etica lavorativa più solida e che i gruppi che includono persone anziane sono più efficaci degli altri».Non è un caso che nel manifesto contro l’ageismo appena presentato si chieda anche l’istituzione di una Giornata europea sul tema: è tempo di “senior pride”.
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