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• 4 Settembre 2023 – Redazione

Di Martina Piumatti, Insideover

Se le persone passano ormai buona parte delle loro vite sui social, per intercettarle è lì che bisogna andare. Ce lo dicono i dati. In media – rileva il report Digital 2023 di We are social – stiamo sulle varie piattaforme più di 2 ore e mezza al giorno: la cifra più alta di sempre. E usiamo i social (44 milioni in Italia hanno almeno un account) anche per informarci. Appena il 22% – secondo il Digital news report 2023 del Reuters Institute, basato su un sondaggio di YouGov che con oltre 93 mila utenti in 46 mercati copre metà della popolazione mondiale – va sul sito di una testata o su un’app di un giornale, il 10% in meno rispetto al 2018.

Un trend che ha portato i media a inseguire man mano l’utente potenziale dove è migrato. Sui social, appunto. Trovare fonti, dare notizie, bruciare la concorrenza nel raggiungere il lettore non sono mai stati così veloci. I formati si moltiplicano, i canali di promozione dei contenuti variano in base al target e la platea si allarga a dismisura. L’interazione costante data dal feedback in tempo reale, oltre a permettere di aggiustare il tiro secondo le reazioni degli utenti, li fidelizza. Così lo “sbarco” del giornalismo sui social, rispondendo a un nuovo modo di informarsi, ha trasformato anche il modo di informare.

In principio fu Twitter, ancora il più usato dai giornalisti (seguono Facebook, Instagram, LinkedIn e YouTube). Non dal loro pubblico, però, che preferisce TikTok, Instagram, Youtube o altre piattaforme dominate dai contenuti video. Un cambio di passo che sta spostando in quella direzione (verso i video) anche i media. Il social lanciato da Jack Dorsey nel 2007 ha indotto i giornalisti ad assorbire logica e stile del nuovo formato multimediale. Nel familiarizzare con la pratica del microblogging, l’imparzialità ha lasciato spazio all’opinione personale del giornalista, che però ha imparato a garantire maggiore trasparenza sul proprio lavoro e a condividere con i propri follower anche i contenuti generati da altri utenti.

La gestione turbolenta di Elon Musk, unita allo scarso uso di Twitter dagli chi è a caccia di news (solo il 13%), sta portando i giornalisti a preferire LinkedIn (42%), Mastodon (10%) e Facebook (7%). Mentre le varie testate investono sempre di più in podcast e newsletter (spesso sfruttando piattaforme create ad hoc come Substack, Beehiiv o Ghost): due canali che si sono dimostrati efficaci nell’aumentare la fidelizzazione degli utenti.

Se Facebook arranca, non si arresta la corsa di Instagram (ha raggiunto i 2 miliardi di utenti attivi mensili) nell’essere sempre più usato (insieme a TikTok) per il consumo di notizie. Stories, reel, Igtv, caroselli: sono diversi i formati messi a disposizione dalla piattaforma targata Zuckerberg. Basta scegliere il più adatto al contenuto da veicolare. Funzionali, d’impatto, facili da fruire, le stories stanno diventando il mezzo perfetto per diffondere e consumare notizie. Nel tempo si sono evolute, includendo ogni genere di tool per agevolare la promozione dei contenuti. Dal testo sopra le immagini alla musica, agli sticker, ai collage che associano video e immagini statiche, fino alla possibilità di inserire link: fondamentale per spostare gli utenti dai social ai siti web delle testate.

Il potenziale comunicativo in perenne evoluzione di Instagram ha spianato la strada a nuove realtà, nate e pensate per informare sui social (in Italia le principali sono Will, Factanza e Torcha). Ogni testata giornalistica ha la propria cifra per differenziarsi in base a obiettivi e target. C’è chi punta su grafiche visive d’effetto e frame di audio, chi predilige un profilo più narrativo con le stories in evidenza e chi mischia. Lo scopo è lo stesso (oltre a fare informazione): conservare la propria fetta di pubblico e aumentare il numero di follower.

Per farlo, spesso una sola piattaforma non basta. Dato che i giornali inseguono il lettore ovunque vada, potevano farsi mancare TikTok? No. Qui l’elenco aggiornato di chi non ha resistito. “Così – sostiene uno studio sull’impatto di TikTok sul giornalismo – le testate giornalistiche imparano a fondere forme di media inedite (ad esempio, video divertenti, sfide) con versioni adattate di quelle tradizionali (segmenti di notizie, frammenti di interviste). Il passaggio, però, non sempre è indolore. “A volte, il contenuto si allontana dal giornalismo per cercare di intercettare il pubblico più giovane nel suo habitat naturale”. Insomma, non arrivano a “ballare letteralmente le notizie, ma con il brand della testata in bella vista mostrano il lavoro dietro le quinte in un’atmosfera informale e musicale con un tono divertente, semplice e accattivante”. Anche se si cerca “un equilibrio tra news, emozioni ed empatia”, il rischio che l’informazione degeneri in intrattenimento è dietro l’angolo.

E in un contesto in cui la fiducia del pubblico verso i media è già al collasso, ad attenderli al varco ci sono influencer e creator digitali. Che in genere hanno più follower e sono considerati più credibili come fonte di informazione. Almeno dagli utenti under 30. “Questo – ci spiega Nic Newman, autore del Digital news report del Reuters institute – è per lo più un cambiamento generazionale. I più giovani tendono a trascorrere gran parte del loro tempo su YouTube, Instagram e TikTok, dove la cultura dei creator è diventata dominante. Soprattutto durante il Covid, i creator hanno iniziato a parlare di argomenti legati alla cronaca. Gli utenti più giovani li ascoltano e poi ne parlano a loro volta”.

Sui social cambiano le regole del gioco e la differenza tra giornalisti e divulgatori di notizie non è più così importante e, soprattutto, non è garanzia di maggiore affidabilità. Sottovalutare la competizione con i creator digitali, più avvezzi alle dinamiche social e con community solide a seguito, è un rischio. Non calcolato e pagato caro da due top player del settore, BuzzFeed News e Vice Media, che sono stati costretti a chiudere i battenti.

Se a indirizzare il consumo di news sono sempre più algoritmi e creator, l’unica strada che hanno i giornalisti “per non morire” è diventare influencer? “No, – dice Newman – ma c’è molto che possono imparare sul loro modo di unire informazione e intrattenimento. Le testate potrebbero aiutare i propri giornalisti di punta a costruire e promuovere il loro profilo sui vari canali. Può essere un modo per far quadrare il cerchio e rendere il giornalismo più rilevante, e anche più umano. A patto, però, che si rispettino i principi deontologici”.

“Giocare all’influencer”, insomma, può essere un’arma a doppio taglio. Da una parte, coltivando la relazione diretta con i follower, si intercettano più utenti. Dall’altra, si trasforma il giornalismo in personal branding. Il lettore non si fidelizza alla testata ma al singolo giornalista, che così si auto promuove: un pericoloso cortocircuito, dove l’attendibilità della notizia si fonda più sul rapporto personale che su criteri oggettivi. E il valore del giornalista-influencer dipende dal numero di follower e dalla capacità di sfornare i contenuti imposti dall’algoritmo.

Non proprio il massimo per il giornalismo che vuole salvarsi dalla condanna all’irrilevanza. “Per sopravvivere – aggiunge il giornalista esperto di strategie digitali, tra i fondatori del sito BBC News – deve attenersi al suo ruolo, che è quello di fornire informazioni affidabili, utili e pertinenti, usando tutti i canali in cui l’utente le richiede. Solo così potrà recuperarne la fiducia”.

Secondo l’editore americano Bryan Goldberg (ceo di BDG Media), invece, l’unica vai per sottrarsi alla competizione, persa in partenza, con i social è uscire dal web, puntando su newsletter, organizzazione di eventi o qualsiasi altro contesto che non sia monopolizzato da Google & Co. “E chi non si adegua verrà schiacciato”. Della serie: se non puoi batterli sul loro campo da gioco, cambia campo. O sarai costretto a cambiare gioco.

Nell’immagine: alcuni post dell’account Instagram italiano Will, che ha 1,5 milioni di follower






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