Siamo in una
guerra mondiale a pezzi, aveva detto papa Francesco tempo fa. E purtroppo la realtà aggiunge ogni giorno qualche nuovo
pezzo a questa guerra mondiale. Ma essendo a pezzi,
frammentata, fatichiamo a vederla nella sua interezza, nelle connessioni strategiche e negli obiettivi che legano tra loro i vari
pezzi. Se la Prima e la Seconda guerra mondiale sono state guerre totali e quasi globali, coinvolgendo non solo gli eserciti ma soprattutto i civili nella distruzione come nella mobilitazione totale di tutti nel conflitto, oggi i
pezzi (e solo i
pezzi) di questa guerra mondiale li vediamo stando seduti sul divano di casa o davanti allo schermo di un pc o smartphone e quindi ci sembrano lontani.
Ci manca la capacità di vederli come parti di un tutto. In realtà, il potere non ha più bisogno di scatenare una guerra mondiale intera, i vantaggi sono ben maggiori lasciando che sia appunto a pezzi. E dividere e frammentare è una strategia perfetta che il potere da sempre usa per farci adattare oggi anche a questa condizione di insicurezza e di guerra cronica che però permette al capitalismo – e tutte le guerre in corso sono guerre tra frammenti di capitalismo (Cina e Russia comprese) per il controllo delle materie prime e per conquistare posizioni di egemonia (con il vecchio divide et impera, diventato digitale) – di fare profitti senza che si crei vera opposizione, vera critica, perché anche chi potrebbe opporsi e criticare è stato frammentato, reso incapace di costruire un discorso pubblico e politico condiviso (e la rete e i social sono anch’essi composti di frammenti autoreferenziali e isolati).
La guerra mondiale a pezzi è dunque solo una parte (anch’essa un pezzo, appunto) di una strategia più ampia. Che dovrebbe preoccuparci, e molto, perché in gioco ci sono la nostra libertà e la democrazia. E invece… Utile è allora il saggio dello storico Quinn Slobodian, da poco uscito in italiano da Einaudi, dal titolo Il capitalismo della frammentazione. Sottotitolo: Gli integralisti del mercato e il sogno di un mondo senza democrazia. In realtà è da tempo – da sempre – che il capitale antepone il mercato alla democrazia, pronto a rinunciare alla seconda pur di mantenere e rafforzare il primo. Perché la democrazia è un intralcio al business, alla crescita illimitata del plusvalore, allo sfruttamento incessante di uomini e ambiente, è una barriera per le forze produttive.
E già il presidente americano Thomas Jefferson ammetteva, due secoli fa, che “le istituzioni bancarie sono più pericolose per le nostre libertà, di un esercito in armi” – un monito che la Svizzera dovrebbe rammentare ogni volta che si sveglia al mattino. E dopo averci illuso con il neoliberalismo – fase propedeutica – che il mercato (ma anche la rete) fosse la forma migliore e anzi perfetta di democrazia, ora il capitale / tecno-capitalismo e gli anarco-capitalisti / libertarians sembrano essere giunti alla convinzione di poter / dover fare a meno del tutto della democrazia, facendoci credere – lo ricorda appunto Slobodian citando un venture capitalist – che “il sistema politico migliore è quello dell’azienda […] cui scegliamo di aderire come clienti.
Se non ci piace il prodotto, andiamo a fare acquisti altrove. Nessuno ci chiede niente e non ci sentiamo in obbligo verso nessuno”. Ovvero, “il capitalismo è molto più importante della democrazia” ha detto anche Stephen Moore – sempre citato da Slobodian – consigliere di Trump e membro della Heritage Foundation, pensatoio assai influente della destra ultraliberista americana e occidentale. Soprattutto se l’intelligenza artificiale e l’ibridazione capitalistica uomo-macchina rendono a loro volta superflua la democrazia (e la libertà) e permettono anzi un sistema globale di autoritarismi anch’essi frammentati, ma che integrati tra loro producono il totalitarismo del capitalismo.
Per raggiungere l’obiettivo della morte formale ma anche sostanziale della democrazia, oltre al neoliberalismo e alla tecnologia servono le zone economiche, i paradisi fiscali, i nazionalismi per la creazione di sempre nuovi stati che per vivere avranno bisogno di capitale e di capitalisti, le città-stato, i porti franchi, gli hub per l’innovazione. Soprattutto le zone: e “nel suo aspetto più elementare” – scrive Slobodian – la zona “è una enclave ricavata all’interno di una nazione ed esentata dalle normali forme di regolamentazione”, ambientali, sociali, salariali, di sicurezza del lavoro, fiscali. Attualmente vi sono ben ottantadue forme di zone/enclave e sono concentrate in Africa, America Latina e soprattutto Asia.
Quasi sempre volute/create dagli Stati. Il tutto per dar vita ad un mondo “sempre più interconnesso e al tempo stesso sempre più parcellizzato”, sviluppando “un pluridecennale tentativo [del capitalismo] di praticare fori nel tessuto sociale”, svuotando la democrazia e limitando la libertà politica, sociale e civile (potenziando invece al massimo quella d’impresa), cioè “di secedere e disertare dalla collettività”. Perché le zone, scrive Slobodian, “non sono solo un mezzo per raggiungere un fine economico [il profitto privato], ma l’ispirazione per la riorganizzazione della politica globale nel suo insieme”. Grazie al suicidio delle nazioni che concorrono a promuovere questa riorganizzazione.
In realtà, definire questa fase come capitalismo della frammentazione ci sembra improprio. Dalla rivoluzione industriale al digitale, infatti, il capitalismo si basa sempre su divisione, frammentazione, separazione, parcellizzazione per poi integrare / connettere e sussumere in sé le parti prima suddivise, in qualcosa di maggiore della loro semplice somma aritmetica. Suddivisione del lavoro, della vita, del consumo, del divertimento e oggi dello stesso individuo, anch’egli tradotto in frammenti di individuo che diventano dati così che ogni sua parte frammentata (corpo, psiche, emozioni, desideri, competenze, informazioni) possa essere valorizzata in termini di accrescimento del profitto capitalistico.
La frammentazione è cioè nell’essenza stessa del capitalismo e ancora di più del sistema tecnico. Perché più si frammenta lavoro, vita e individuo – e oggi anche la guerra – meglio il sistema riesce a sussumerci (secondo movimento della sua razionalità, dopo la divisione / frammentazione), cioè integrarci nella sua totalità. E se ieri vi erano le grandi guerre mondiali e le grandi industrie (centralizzazione del comando e concentrazione di soldati e di operai – perché ieri il capitalismo aveva bisogno anche di uno Stato grande, forte e centralizzato per ingegnerizzare i comportamenti umani necessari e funzionali), così oggi abbiamo frammenti di guerra mondiale, frammenti di forza lavoro e frammenti di micro-imprese, di start-up e di lavoratori delle piattaforme digitali, dove vi è sempre la centralizzazione dell’organizzazione, del comando e della sorveglianza (ma ormai direttamente assunta dal capitale e dalle sue oligarchie / tecnocrazie e incorporata nelle macchine).
C’è modo di rovesciare questa tendenza / vocazione antidemocratica del capitalismo, cioè totalitaria? In questo ci aiuta il libro del senatore socialista democratico americano Bernie Sanders, due volte in corsa per la Casa Bianca, due volte bloccato dalle oligarchie economiche e da quelle del suo stesso partito – e appena tradotto in italiano. Il titolo – Sfidare il capitalismo – scelto dall’editore Fazi è insieme esistenziale e politico: politico nel senso di sollecitarci a riprenderci la politica, quindi la democrazia, evitando che il capitale la uccida definitivamente, trasformandoci da cittadini a clienti e insieme a forza lavoro della sua fabbrica globale; esistenziale, nel senso di farci consapevoli di ciò che sta producendo il capitalismo per sé ma contro tutti noi e contro l’ambiente. Un titolo italiano certamente migliore dell’originale – It’s OK to Be Angry About Capitalism – per sintetizzare quello che dovrebbe essere un dovere, un imperativo categorico non solo delle sinistre e dei socialismi ma di ciascun cittadino che abbia ancora a cuore la sua libertà e la democrazia.
Come possiamo infatti accettare – sostiene Sanders – un sistema economico che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e un capitalismo sfrenato (Sanders lo chiama übercapitalismo) che mina la democrazia e minaccia il pianeta? Sanders non si limita alla denuncia, ma propone – e da tempo – un programma dettagliato di cambiamento radicale, una rivoluzione nel pensiero politico che riporti la sinistra e la democrazia dalla parte dei lavoratori e dei cittadini. E dell’ambiente e delle future generazioni.
Ma il problema è tutto nella domanda: siamo ancora / di nuovo capaci di sfidare il capitalismo?
Nell’immagine: illustrazione generata dall’IA (Openart.ai)