Bergoglio, il papa traduttore

Bergoglio, il papa traduttore

Due eventi hanno mostrato in parallelo differenze e contiguità tra l'attuale pontefice e il papa emerito Ratzinger


Pietro Montorfani
Pietro Montorfani
Bergoglio, il papa traduttore

 Lo scorso 11 febbraio ricorreva, passato un po’ in sordina nella grande messe di notizie di «attualità» nella quale siamo costantemente immersi, il nono anniversario di un momento storico: le clamorose e tuttora misteriose dimissioni di Joseph Ratzinger dal soglio più alto della Chiesa di Roma, evento che ha coinciso con l’invenzione di una nuova istituzione religiosa e giuridica, quella del papato emerito. Nella lunga e tormentata storia del cristianesimo non sono mancati momenti in cui c’erano due o persino tre papi, in aperta lotta tra loro, ma è chiaro che siamo di fronte a qualcosa di radicalmente diverso. Non un’opposizione bensì una compresenza, un equilibrio dinamico attorno al quale si sono accapigliati i più agguerriti vaticanisti, sovente alla ricerca di vere o presunte tensioni tra i due, di ingerenze del primo (in pensione) sul secondo (in attività), dentro e fuori le mura di San Pietro. Noialtri, popolo dei comuni mortali, dobbiamo accontentarci di quello che emerge sulla stampa. La scorsa settimana, da questo punto di vista, è stata a dir poco clamorosa.

A poche ore di distanza abbiamo assistito infatti a due fenomeni mediatici che hanno messo in evidenza, mai come prima d’ora in questi nove anni, la differenza di stile tra i due papi: Francesco che si concedeva a Fabio Fazio in una lunga intervista su Rai Tre, e Benedetto XVI che rispondeva per lettera alle accuse di avere coperto preti pedofili quando ancora era a capo della diocesi di Monaco. Questi due «oggetti», l’intervista e la lettera, chiedono di essere considerati con attenzione, non da ultimo per il fatto che sono assolutamente complementari.

Che papa Bergoglio sia uno straordinario comunicatore, il migliore che potesse capitare alla Chiesa del terzo millennio, è fuori di dubbio: sue sono state, da subito, formule memorabili come quella dell’ “ospedale da campo “ (per identificare una Chiesa che deve andare nel mondo, con l’agilità e la povertà di una struttura di emergenza), o come il «chi sono io per giudicare» pronunciato con disarmante sincerità di fronte a una domanda sull’omosessualità. Alcune di queste immagini sono tornate in occasione dell’intervista con Fazio, che soprattutto nella prima parte toccava temi cari a Francesco quali la questione migratoria («il Mediterraneo è il cimitero d’Europa») o quella ecologica («dobbiamo farci carico della Madre Terra, come la chiamano i popoli aborigeni»). Soltanto sul finire della lunga conversazione, durata circa un’ora, si sono toccati argomenti più prossimi alla realtà spirituale dei cristiani, sui temi della preghiera, della fede e del perdono (inteso come un diritto!), e posso capire in parte chi obietta, dall’interno del mondo cattolico, che il papa si occupi troppo di questioni sociopolitiche, e meno di quelle spirituali. «È più attento a salvare i corpi che le anime» ha riassunto un caustico Marcello Veneziani nel suo ultimo pamphlet, La Cappa. Per una critica del presente, appena apparso da Marsilio. Certo il papa fa quello che i politici non fanno: avanza, con umile ma fermo pragmatismo, proposte di soluzioni realistiche (i contingenti di migranti distribuiti proporzionalmente tra le nazioni d’Europa, ad esempio) e si fa portavoce di un buonsenso che nasce sì all’interno dell’esperienza cristiana, ma che non si esaurisce in quella.

L’intervistatore, il più democristiano dei sacerdoti laici della televisione italiana, non ha posto domande scomode ed è un bel dire che «il papa è andato da Fazio», perché è vero il contrario (come la montagna con Maometto). Non soltanto per il collegamento a distanza, che con buona pace di chi urlava alla desacralizzazione della figura papale ha in qualche modo ovviato al problema dell’ospitata televisiva, ma per la continua riverenza nei confronti del «Santo Padre»: giustificata e corretta, verrebbe da dire, perché in quei casi l’intervistatore si fa portavoce del sentimento degli 8 milioni di spettatori connessi, consapevole di non essere una Fallaci davanti ad Arafat o Khomeini. Più che uno scoop, è stata la celebrazione di un rito, o forse meglio un arricchente momento di catechesi. D’altronde Fabio Fazio, più per indole che per professionalità, avrebbe fatto lo stesso con un Dalai Lama o il metropolita Ilarion.

L’unico tema non affrontato su Rai Tre è stato invece al centro della lettera pubblica che Joseph Ratzinger si è sentito in dovere di scrivere di fronte al montare dello scandalo delle indagini sugli abusi all’interno delle diocesi tedesche (quelle francesi hanno offerto risultati scioccanti, mentre la Chiesa svizzera è attualmente sotto osservazione), indagini che hanno sfiorato anche la sua persona. Il problema contingente è di importanza relativa – la sua presenza o meno a una riunione, circa la quale è stato commesso a quanto sembra un errore di verbalizzazione, non si sa se in buona fede – ed è invece fondamentale il testo della lettera, nella quale dopo aver affermato con forza la propria estraneità ai fatti, cioè alla copertura di preti accusati di pedofilia, accetta invece in toto le colpe di cui la Chiesa si è fatta responsabile sotto il suo pontificato, in tutte le diocesi e parrocchie del mondo. Non quindi una colpa minima e personale, bensì «maxima» e generale, inaggirabile, per la quale il papa emerito ha chiesto scusa con la più sincera contrizione. La Chiesa non è d’altronde nuova a questo genere di ammissioni, inaugurate da Giovanni Paolo II.

Portare il discorso dal piano giuridico a quello morale e infine teologico (ricchissimi sono gli spunti in tal senso, soprattutto nella parte conclusiva della lettera) è tipico dello stile argomentativo di Ratzinger, sempre proiettato sulla verticalità dell’esperienza spirituale. Orizzontale è invece in prima battuta l’approccio di Bergoglio, teso a toccare le ferite dei corpi, degli uomini e della natura in pari grado, e soltanto in seguito a offrire di tutto questo una lettura secondo categorie cristiane. L’errore più comune, da non commettere, è ritenere solo il primo un grande teologo e il secondo invece una semplice (si fa per dire) persona buona. La medesima esperienza millenaria e il medesimo messaggio evangelico stanno dietro le spalle di entrambi, una ricchezza di contenuti che si declina in chiave culturale in Ratzinger e che viene invece tradotta da Bergoglio (non saprei quale parola utilizzare altrimenti) nella lingua di tutti i giorni, quella che il mondo capisce nell’immediato. È quindi inevitabile, per chi non colga questa fondamentale distinzione stilistica, che il papato di Francesco continui a deludere le aspettative dei fedeli più progressisti: nei pochi anni che ancora gli rimangono, e probabilmente nemmeno dopo, non si daranno stravolgenti aperture sul fronte del sacerdozio femminile, del matrimonio religioso per gli omosessuali o del celibato dei preti. Se il contenuto fondante dell’esperienza cristiana, fatto anche di simboli, abitudini e tradizioni consolidate, non è stato stravolto dall’arrivo di Bergoglio, è cambiato però radicalmente il linguaggio: Joseph Ratzinger non sarà stato l’ultimo papa a dare le dimissioni (è verosimile che in futuro altri lo seguiranno) ma è stato di certo l’ultimo a farlo in latino. Di «ingravescente aetate» e di tutte le altre fragilità di noi esseri umani si parlerà sempre di più, in quel paese per vecchi che è oramai diventato il mondo intero, ma lo si farà con la lingua di tutti, quella di papa Bergoglio.

Nell’immagine: la fumata bianca che ha segnalato l’elezione del card. Bergoglio nel 2013

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