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Divulgare, divertire, divergere: una questione morale?
Naufragi

Divulgare, divertire, divergere: una questione morale?

Perché negli ultimi decenni si è abbassata la capacità di comprendere testi di media complessità


Pietro Montorfani
Pietro Montorfani
Divulgare, divertire, divergere: una...
• 4 Febbraio 2022 – Pietro Montorfani
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Con l’autorevolezza e la lucidità che gli sono proprie, Silvano Toppi ha toccato, nel suo ultimo contributo su queste pagine, questioni di non semplice soluzione e di grandissima attualità. Nella sua difesa della «noia», cioè del tempo e della fatica necessari ad appropriarsi delle conquiste più alte dell’umanità, in campo creativo, culturale o scientifico, c’è tutta la preoccupazione di chi vede venire meno la disponibilità a fare questo sforzo nei principali ambiti della società, educazione in primis. Sarà vero? Non ho competenze per rispondere e posso solamente aggiungere qualche considerazione che si situi sulla medesima lunghezza d’onda e che condivida, in una certa misura, la stessa preoccupazione.

Nei miei brevi trascorsi da insegnante in vari ordini di scuola, più da meteora che da professionista degno di tale nome, mi è capitato di utilizzare stratagemmi pop volti ad agganciare, se non proprio a conquistare definitivamente, l’attenzione degli studenti: il busto di Cattaneo paragonato al faccione pelato del wrestler Hulk Hogan, una pagina di Machiavelli spiegata con una striscia di Zagor, una lettura degli schieramenti in campo nel primo canto della Gerusalemme liberata quasi fosse un’appassionata partita di pallacanestro. Ci sarò riuscito? L’onere della prova richiederebbe che tornassi dagli interlocutori, a distanza di anni, per verificare che cosa sia rimasto di quelle mie trovate: se (anche) il contenuto umanistico, oppure soltanto le immagini più accattivanti. Il rischio, in questi casi, è fare la fine di quella memorabile pubblicità con l’elegante signora che urlava al marito «Adesso esco, e vado con il primo che incontro!», e il dirimpettaio bell’e pronto a risponderle «Buonaseeeeera». La ricordano tutti, ma pochi, forse nessuno, la associa ancora all’oggetto di quella brillante storiella: un nuovo modello di FIAT Punto. La comunicazione a volte è talmente efficace da non comunicare nulla al di fuori di sé stessa.

Il tema sembra banale ma tocca a tal punto i principali ambiti del nostro vivere civile – la scuola, certo, ma più in generale il ruolo della cultura e della scienza, i rapporti con le istituzioni e infine l’esercizio stesso della democrazia – da non poter essere preso sottogamba. Da un lato assistiamo a una sacrosanta battaglia per l’inclusione di tutti (si pensi alla «lingua facile» di cui si è dotata recentemente anche l’amministrazione cantonale ticinese) e dall’altro non possiamo che constatare un aumento, a tutti i livelli, della complessità del vivere. Due anni di pandemia ci hanno insegnato almeno questo: hai voglia a semplificare sempre per comunicare meglio, quando l’oggetto stesso di quella comunicazione è multiforme, sfuggente, tutt’altro che «semplice». La parola che andrebbe utilizzata a questo punto, brutta e antipatica finché si vuole, è analfabetismo: non tanto un analfabetismo linguistico in senso stretto, quanto cognitivo-culturale. L’ipotetica asticella che definisce la capacità, all’interno di una società, di comprendere al volo testi di media complessità negli ultimi decenni si è vistosamente abbassata. Si è allargata la base, anche grazie alla democratizzazione degli studi, ma si è abbassato il livello, c’è poco da fare. Ben vengano quindi tutte le soluzioni possibili (anche il rap!) per mantenere ampia la base, purché non ne vada dei contenuti fondanti, cioè del motivo stesso della comunicazione, che non è raggiungere le orecchie bensì il cervello degli interlocutori. Nella società ipermediatizzata, consumistica e competitiva nella quale viviamo la maggior parte dei messaggi si ferma troppo presto, al padiglione auricolare, contribuendo ad aumentare il rumore nel quale siamo immersi. Silenzio, tempo e noia non trovano più spazio, su questo Toppi ha ragione da vendere.

Di divulgazione e cultura si è parlato recentemente a proposito della trasmissione «Turné Soirée», con una raccolta firme che era stata pensata proprio per sollevare questo ordine di questioni, non certo per un attacco mirato a dei professionisti che pure continuano a fare un lavoro difficile, con intenzioni che si intuiscono nobili e perciò condivisibili. Il problema, lì come altrove, sta nel rapporto che si instaura tra il linguaggio scelto (gli stratagemmi pop) e la natura stessa degli oggetti che si vogliono raccontare. Non tutto può essere detto e presentato in quel modo, quando invece la cultura, l’arte, la musica, i libri – cioè l’oggetto stesso della trasmissione – mirano proprio a raccontare quel «tutto». Esiste un rapporto morale tra il contenuto di un messaggio e il linguaggio utilizzato per veicolare quel contenuto. Un libro su una terribile esperienza di malattia, per fare un esempio concreto, potrebbe essere accolto in una trasmissione costruita su quel genere di «leggerezza»? Difficile, se non impossibile. Ecco il punto: pertinenza, ragionevolezza, equilibrio, misura. Tutti ingredienti di cui spesso la comunicazione del terzo millennio fa volentieri a meno, spinta da necessità diverse, numeriche, algoritmiche, commerciali, persino idealmente «democratiche» (non però nei fatti). Forse un sano ritorno a uno sguardo più umanistico, nei confronti non solo degli oggetti della nostra attenzione ma anche dei nostri interlocutori finali (a scuola, in politica, in televisione), potrebbe aiutare a mantenere in vita questo difficilissimo equilibrio, senza dover per forza rinunciare all’utilizzo della fantasia che è da sempre uno dei grandi meriti della nostra specie.






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