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Lelio Demichelis
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• 29 Luglio 2022 – Lelio Demichelis

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

A cento anni meno un mese dalla Marcia su Roma di Mussolini, il 26 settembre prossimo l’Italia rischia di avere una premier post-fascista, Giorgia Meloni – o comunque un premier indicato da lei. Qui ci interessa capire cos’è e chi rappresenta il suo partito, Fratelli d’Italia. Post-fascista, forse; certo fascista nella gran parte della sua base elettorale, nei suoi rapporti ambigui con Casa Pound, nel suo essere populista, sovranista, xenofobo, antieuropeista ma neoliberista, omofobo, orbaniano quindi forse anche putiniano, alleato della franchista/fascista Vox spagnola, autarchico; fascista anche nel simbolo di Fratelli d’Italia che appunto contiene la fiamma tricolore – che era il simbolo del fascista Movimento sociale italiano, del fascista Giorgio Almirante. 

E da qui la questione: il partito Fratelli d’Italia si offre forse come nuovo contenitore – a voler dare ragione a un grande liberale, sempre di cento anni fa, come Piero Gobetti – dei moltissimi italiani che compongono antropologicamente quel fascismo come auto-biografia della nazione, cioè: “Né Mussolini né Vittorio Emanuele Savoia hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi”? A riguardare la storia recente, dal 1994 a oggi gli italiani si sono fatti sedurre da una sequela di populisti, fascisti, arruffapopolo, manipolatori mediatici come Bossi e Berlusconi e poi Beppe Grillo e poi Matteo Salvini e ora appunto Giorgia Meloni, nuova leader carismatica per molti e che per di più, essendo donna, maschera bene il machismo profondo di coloro che antropologicamente sono fascisti e/o hanno animo di schiavi. 

I sondaggi di questi giorni la danno addirittura al 25% delle preferenze di voto, cioè un italiano su quattro voterebbe per lei. Percentuale che mette davvero i brividi in corpo – senza contare l’altro problema: l’astensionismo. Ma che il fascismo, nelle sue possibili varianti, non sia solo un fenomeno degenerativo italiano e sia piuttosto e di nuovo la metastasi autoritaria, sovranista, nazionalista, populista che rinascendo colpisce le democrazie del mondo, più o meno come cento anni fa, lo dimostrano anche Orbán, Trump, per non dire Bolsonaro, Putin e molti altri (Udc svizzera compresa). E quindi rinviamo doverosamente alla Matita nell’occhio di Franco Cavani del 27 luglio, che riprende Shakespeare: “Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi”. 

Ma prima di procedere oltre sugli aspetti politici della crisi italiana, consideriamone la fotografia sociale. L’ha scattata, due settimane fa l’Istat ed è drammatica; ma è anche l’esito inevitabile di tre decenni di ideologia neoliberale che ha trasformato, con la complicità delle destre ma anche del PD (ormai dipendente dal neoliberalismo e incapace di cercare alternative riformiste/progressiste), il lavoro da diritto a merce possibilmente low cost e iper-flessibile/precario, che ha stravolto la Costituzione sociale imponendo una sua Costituzione iper-competitiva, de-socializzante, impoverente i più e arricchente i pochi.

Scrive dunque, in sintesi il Rapporto 2022 dell’Istat: “Il lavoro tradizionalmente definito come standard, cioè quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno, è in diminuzione. Nel 2021, queste modalità di lavoro riguardano 6 occupati su 10. […] Aumenta il lavoro dipendente a tempo determinato soprattutto con contratti di breve durata. Quasi la metà dei dipendenti a termine ha un’occupazione di durata pari o inferiore ai 6 mesi. Negli anni è aumentata anche l’occupazione part-time, che nel 2021 riguardava quasi un quinto degli occupati e nella maggioranza dei casi è involontario [cioè imposto dall’impresa al lavoratore]. Ed è proprio questa la forma di part-time che ha mostrato la crescita più consistente”. 

E ancora: “Va sottolineato come la diffusione di forme di lavoro non-standard abbia contribuito a un peggioramento della qualità complessiva dell’occupazione, comportando anche livelli retributivi mediamente più bassi. Le modalità di partecipazione, o non partecipazione, al mercato del lavoro sono tra le determinanti più significative della condizione di povertà. La povertà assoluta, nell’ultimo decennio, è progressivamente aumentata e, nel biennio 2020-2021 ha raggiunto i valori più elevati dal 2005, coinvolgendo oltre cinque milioni e mezzo di persone. […] Il fenomeno ha inoltre progressivamente coinvolto sempre più famiglie di occupati […] ed è molto aumentata la povertà dei minori e dei giovani”.

Se questa è la realtà italiana, una sinistra che fosse davvero sinistra e progressista nei fatti e non solo nella propria auto-definizione auto-referenziale (Letta: “Il PD è la sinistra”) dovrebbe intervenire puntando sulla soluzione della crisi sociale con interventi drastici e radicali (in realtà avrebbe dovuto farlo già da tempo, facendo la voce grossa anche nel governo Draghi); ma soprattutto dovrebbe essere non solo contro la destra raccogliendo tatticamente, per le elezioni, pezzi politici diversi per evitare la débâcle imposta da una pessima legge elettorale, ma avere una visione del futuro, dimostrarsi responsabile verso le prossime generazioni (i giovani di oggi e chi dopo di loro), presentare un piano di redistribuzione della ricchezza, prospettare un’azione decisa sul fronte ambientale ben oltre la finzione ecologica impersonata dal ministro Cingolani. E invece, ancora silenzio, al di là di qualche parola retorica, un silenzio che dura ormai dalla famosa implorazione di Nanni Moretti a D’Alema – “dite qualcosa di sinistra, qualcosa di civiltà!” – nel film Aprile, del lontano 1998 (una sequenza da rivedere) poi ripresa più volte.

Oggi è la destra – soprattutto Meloni (all’opposizione del governo Draghi), con Salvini che torna a rimasticare il tema dei migranti facendosi riprendere ancora avendo sullo sfondo riproduzioni di santi e di madonne, e poi con Berlusconi che sogna di diventare Presidente del Senato e allora sarebbe la beffa crudele e cinica del destino impolitico dell’Italia, coprendola di ridicolo agli occhi del mondo (di quello serio e illuminista) – oggi è ancora la destra, quasi come cento anni fa, a intercettare il disagio sociale, l’impoverimento di massa, la rabbia degli emarginati; allo stesso tempo offrendosi come alternativa (ma alleandosi paradossalmente con Lega e Forza Italia che erano e sono invece nella maggioranza draghiana) e a soddisfare il loro animo di schiavi ma anche il loro ricorrente bisogno di un padrone o almeno di un padre (nel caso, di una madre) forte e capace di offrire autorità e una illusione di sicurezza e di ordine. 

Il paradosso è che Meloni è appunto neoliberale e filo-capitalista più di Draghi e più del PD: ovvero, gli italiani che la voteranno (con Salvini e Berlusconi) sceglieranno non la cura/uscita dai disastri sociali e ambientali prodotti dall’ideologia neoliberale e tecnofila negli ultimi trent’anni, ma la continuazione di quelle politiche con altri mezzi e con altre forme, perfino peggiori. Certo, rispetto al neoliberale PD, Meloni ha appunto il vantaggio di essere stata all’opposizione e questo la fa sembrare diversa – ma appunto, solo sembrare. 

Servirebbe che il PD dicesse/facesse qualcosa di sinistra uscendo dal neoliberalismo, ma per farlo occorrerebbe avere chiaro il concetto di sinistra e conseguentemente generare un vero cambio di paradigma economico, sociale e ambientale.

Altrimenti torniamo alla Matita nell’occhio di Franco Cavani – e a Shakespeare.






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