Dicotomica è la Turchia. Quindi doppia. Ma appunto… alla turca. Cioè in modo stabile ma anche contraddittorio. Già per collocazione geografica, a cavalcioni dello stretto dei Dardanelli, un piede in Europa e l’altro in Oriente; da oltre un quarto di secolo, nazione fratturata nel confronto fra grandi centri e periferie soprattutto anatoliche; società in parte laicizzata e nell’altra sempre islamico-conservatrice; produttore della migliore cinematografia in sala e sul piccolo schermo lagne famigliari lenificanti di pura tradizione, da fez antico; e generazioni in sintonia sempre più precaria. Infine, oscillante fra illusioni di recuperabile potenza ottomana, con richiami illiberali e fortemente nazionalistici, e brusche frenate kemaliste indisponibili a rifiutare la calamita dei modelli occidentali. Il tutto tradotto in doppiogiochismo geo-politico: partecipazione alla Nato ma acquisti di missili da Mosca; esercito occupante parte dell’Iraq e della Siria (con l’ossessione anti-curda) ma anche volutamente cieco quando si tratta dei macellai Isis tranquillamente in transito come fu documentato durante lo Stato islamico e come confermato recentemente dal fatto che i ‘jihadisti’ autori della strage di Mosca partirono dal Tagikistan e transitarono tranquillamente dal corridoio turco.
Accade così che il quadro, apparentemente immobile, possa imprevedibilmente scomporsi in parte da un anno all’altro. Nel 2023 la riconferma di Erdogan alla presidenza, premiato come figura di gran leader regionale e internazionale, che riproponeva la centralità della sua diplomazia a tutto campo, del prestigio (rubacchiato) di gran mediatore, di riconosciuto politico attorno al quale raccogliere i guerreggianti in Ucraina, o suggeritore di successo dell’allora accordo sul grano in partenza dal Mar Nero. Ve li ricordate quei titoli, dopo settimane in cui a Ovest si sperava e fantasticava sulla caduta del ‘rais’? “Non avevamo capito nulla’, arrivò a titolare uno dei giornali che più si erano esposti in quella ottimistica previsione, alimentata anche dalle conseguenze di un devastante terremoto e dalla relativa certezza che la corte di Erdogan avesse facilitato la costruzione di palazzi sbriciolati dall’urto della terra perché tirati su con la fretta speculativa e poveri materiali a basso costo.
Oggi, dietrofront. Erdogan, per sua stessa ammissione, esce con le ossa rotte da un voto amministrativo che all’opposizione repubblicana ha riconsegnato o consegnato non solo Istanbul (“chi la controlla governa l’intera Turchia”, disse il gran capo della sua città natia ai tempi del trionfo) ma anche Ankara, e altre città importanti, alcune addirittura a sud del ponte sui Dardanelli che porta il nome della battaglia di Gallipoli dell’inizio del secolo scorso. Certo, le municipali hanno anche logiche squisitamente locali. Ma, al netto di questa peculiarità, appare chiaro che la peggiore sconfitta di Erdogan negli ultimi decenni anni è soprattutto lo stato di un’economia nazionale in crescente difficoltà: riassumibile nel dato dell’inflazione – e quindi del carovita – ormai vicina all’ottanta per cento. E nemmeno c’era, forse per fortuna, la riproposta del fronte unico che non riuscì a batterlo nell’autunno scorso: “solo” una manciata di sindaci popolari e collaudati (primo fra tutti a Istanbul, quel giovane Ekrem Imamoglu con evidente destino politico a livello nazionale), e altri in candidatura che hanno avuto facile gioco nell’indicare i rivali e amici del presidente quali responsabili anche dei grossi guai locali.
Cambierà la politica di Erdogan, che grazie alla sua nuova Costituzione veste comunque un’armatura di poteri amplissimi? Poco o pochissimo sul piano interno: la ricetta della nuova società islamizzata turca forse è arrivata al capolinea, attenuandone i progetti e magari impedendo al capo dello Stato un’altra riforma che dia all’ “emiro” la possibilità di una terza candidatura; per il resto si continuerà a scivolare sul piano inclinato che limita fortemente lo stato di diritto, dal bavaglio ai mass media, al controllo della magistratura, al sostanziale non riconoscimento delle istanze della comunità curda, a ricette economico-finanziarie spesso bizzarre e autarchiche. Nulla, invece, muterà della strategia internazionale: né la caccia alla supremazia nella parte orientale del Mediterraneo (ricco di risorse energetiche), né la denuncia di Israele e l’appoggio ad Hamas per accaparrarsi il ruolo di difensore della causa palestinese; né l’espansionismo militare, non solo Siria e Iraq, ma anche coi cingolati turchi spinti fino in Libia per spartirsi, magnanimamente insieme ai russi, il controllo di quel sanguinoso labirinto che è ormai da anni il campo di battaglia del dopo Gheddafi.
Meglio dunque che l’Occidente sia prudente nel leggere dell’ultimo voto, e che si faccia una ragione della dicotomia turca. Nel lontano passato kemalista (abbattuto l’impero) il paese fu considerato modello di una società musulmana laica e tollerante (nonostante il genocidio, en passant, di un milione e oltre di concittadini curdi); quindi fu l’alleato fedele della Nato dentro il pugno duro della dittatura militare; poi col primo Erdogan il faro del possibile incontro fra islam e democrazia e perciò candidabile all’UE; infine il regno di derive che, con lo stesso leader, la portavano altrove, comunque in territori illiberali e lontani, rendendola sempre meno proponibile all’integrazione europea in un continente ormai alle prese con la calcolata idiosincrasia anti-islamica.
Attenti dunque a dar ora per certa, per concreta, per incoraggiante la speranza di una svolta anti-autoritaria, consona anche agli interessi occidentali. La dicotomia non è fissità.
Nell’immagine: Ekrem Imamoglu, sindaco laico di Istanbul. Dopo essere stato riconfermato è visto da molti analisti come un potenziale futuro presidente