La “normalità” di un carnefice di nome Rudolf Höss e la sua vita tranquilla a due passi dal campo di concentramento di Auschwitz, nel film “La zona di interesse” di Jonathan Glazer
Jonathan Glazer non è regista prolifico. Di origini ucraine, nasce nel 1965 e si forma in seno alla vivace comunità ebraica di impronta liberale e progressista di Hadley Wood, a nord di Londra. Cortometraggi, spot pubblicitari e videoclip di successo sono alla base della sua carriera, prima di approdare al cinema nel 2000 con Sexy Beast, seguito dal thriller Birth e nel 2013 dal fantascientifico Under the Skin, accolti con interesse dalla critica internazionale. Trascorrono dieci anni prima di arrivare al suo recente The zone of interest, oggicandidato a 5 premi Oscar. Nel 2014 legge il libro omonimo di Martin Amis e se ne assicura i diritti per il grande schermo, decidendo di mettere a fuoco un solo personaggio. Si tratta – Glazer, a differenza di Amis, gli restituisce il suo vero nome – di Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz dal 1940 al ’43.
Insieme alla famiglia, la moglie Hedwig e cinque figli, il comandante vive nella ‘zona d’interesse’, cioè la zona adiacente il campo di sterminio, in una villetta con giardino, piscina, orto, serra, una sorta di piccolo paradiso che la coppia ha costruito inseguendo il sogno di vivere in campagna con numerosa prole. Ma. La casetta dei sogni, il prato fiorito, il cane festoso e un po’ troppo abbaiante, i bambini ridenti e frignanti, gli spruzzi in piscina e le gite al fiume, il verde rigoglioso della natura, tutto questo letteralmente confina con l’inferno del campo adiacente. Dietro il muro del giardino incoronato di filo spinato, si innalzano ben visibili i camini fumanti, i tetti delle baracche, e di lì giungono suoni, colpi di fucile, grida di prigionieri, passi di soldati che si mescolano ai suoni della vita quotidiana della famiglia Höss.
Il bagno estivo nel fiume si interrompe bruscamente quando il padre si rende conto che vi sono state appena versate dai forni crematori le ceneri del genocidio programmato. Perché ad Auschwitz i morti non sono un effetto collaterale della guerra, ma un preciso progetto su vasta scala, da realizzare con sempre maggiore rapidità ed efficienza. La scelta di Glazer è quella di proporre una narrazione dell’Olocausto secondo l’occhio dei carnefici, non delle vittime, mostrandoci quanto più somigliamo ai primi piuttosto che alle seconde. Le vittime, quasi invisibili, sono assenze-presenze incancellabili. E i carnefici non sono mostri, ma gente ‘normale’, con desideri borghesi di vite anonime e tranquille. I mostri esistono, dice Primo Levi, ma da soli farebbero ben poco, se non avessero dalla loro le persone comuni, funzionari e burocrati pronti ad obbedire senza discutere gli ordini dei superiori. Come Eichmann, essi incarnano la ‘banalità del male’.
Secondo Glazer, il film non vuole approfondire l’ideologia nazista ma il nostro essere umani. Non intende banalizzare l’Olocausto, al contrario, ma proporre alle giovani generazioni una narrazione della Shoah con paradigmi nuovi, adesso che i sopravvissuti stanno scomparendo e che la cronaca diventa Storia. Tuttavia non è un film sul passato, sottolinea il regista, ma sull’oggi, non un pezzo di storia, ma un avvertimento per il presente. Quello di Glazer è grande cinema, coraggioso, spiazzante, scomodo, anche sul piano formale.
Il dipanarsi della quotidianità della famiglia Höss è interrotto da tratti di sperimentalismo improvviso, con lo schermo che si fa rosso sangue o nero, attraversato dal tessuto sonoro angosciante e frammentario di Mica Levi. Ma anche il bene ha la sua precisa collocazione, sotto forma di una giovinetta– realmente esistita, e Glazer ha fatto in tempo a conoscerla –che di notte inforca la bicicletta e si avventura nei luoghi dove sa che i prigionieri verranno a cercare il cibo che lei nasconde per loro. Sono suggestive immagini ‘in negativo’ che fanno apparire la ragazzina come un alieno. Nei ruoli dei protagonisti ci sono Christian Friedel (già maestro di scuola nel film di Michael Hanecke Il nastro bianco, del 2009, dedicato alle radici del nazismo ) e Sandra Hüller, candidata all’Oscar con un altro film importante, Anatomie d’une chute. Lui offre al comandante Höss il volto che aveva, di uomo comune, senza segni particolari, se non la rasatura dei capelli quasi punk. Banale anche nell’intrattenere rapporti sessuali con una giovane prigioniera ebrea, senza dimenticare di lavarsene accuratamente le tracce. Lo vediamo compiere gesti da padre modello, intento a leggere fiabe ai suoi figli, paziente nel sopportare gli strilli dell’ultimo nato, affezionatissimo al suo cavallo cui dice ‘ti voglio bene’, e lo vediamo anche pianificare a tavolino nel modo più efficiente lo sterminio di milioni di persone. Mai un ripensamento, mai un dubbio? Chissà.
Sandra Hüller è interamente calata nel ruolo di Hedwig. Da lei non traspare nessun sussulto, nessun minimo turbamento. Si impossessa con piglio sicuro della pelliccia di una vittima e perfino del suo rossetto usato, chiacchiera sorseggiando il tè con le mogli degli altri funzionari, si pavoneggia con la madre – che invece di ripensamenti ne avrà, tanto da fuggirsene di notte dalla villetta confinante con l’inferno- e si rifiuta categoricamente di lasciare il suo paradiso privato quando il marito viene trasferito a Berlino. Lo difende come cosa sua, quel sogno faticosamente realizzato di vivere in campagna, difende il diritto dei bambini di crescere all’aria aperta, in uno dei momenti più grotteschi e stranianti del film.
Girato interamente ad Auschwitz, in quella che fu un tempo la ‘zona d’interesse’, dove Glazer ricostruisce in ogni dettaglio la casa di Höss utilizzando gli archivi del museo, il film si chiude con un finale degno di Kubrick. Il comandante che scende le scale ed è preso da conati di vomito – ma non si tratta di presa di coscienza, avverte il regista – si volta e vede il futuro, il campo di sterminio divenuto museo, gli ex forni crematori e le vetrine con le scarpe dei deportati che le donne delle pulizie stanno ripulendo dalle tracce lasciate dai visitatori.
Quando l’orrore si storicizza, come inevitabilmente accade, anche la memoria può diventare abitudine, e allora contro l’oblio, contro il negazionismo, contro l’aberrante ‘normalità’ che alberga in ciascuno di noi il film di Glazer si pone a baluardo con la scintilla del capolavoro.
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