Bivio Teheran
Gli ayatollah ancor più indeboliti militarmente, i loro dubbi, ma anche quelli di Israele
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Gli ayatollah ancor più indeboliti militarmente, i loro dubbi, ma anche quelli di Israele
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Gli ayatollah ancor più indeboliti militarmente, i loro dubbi, ma anche quelli di Israele
Il codice barbaricino stabiliva che la vendetta dovesse essere proporzionata, prudente e progressiva. E “proporzionato” è l’aggettivo più usato in questi giorni per definire l’attacco israeliano di sabato scorso contro l’Iran, in risposta a quello iraniano di inizio ottobre. Proprio questa “proporzionalità” induce molti a ritenere che Teheran non risponderà, evitando così una spirale bellica nella regione. Tuttavia, non si deve sottovalutare la volatilità dell’attuale scenario medio orientale. L’ultima operazione israeliana potrebbe infatti segnare l’inizio di una fase ancor più pericolosa poiché alcuni tra i principali attori regionali affrontano scelte esistenziali.
L’Iran, innanzitutto. La distruzione di buona parte delle sue difese aeree e delle capacità di produzione missilistica lo rendono molto più vulnerabile. Oggi Teheran è di fronte a una scelta delicatissima: una reazione esporrebbe il regime a una severa rappresaglia israeliana che potrebbe perfino riguardare i siti nucleari iraniani. Una mancata reazione rischierebbe di passare come un segno di debolezza. Inoltre, i duri colpi inferti da Israele ad Hamas ed Hezbollah hanno degradato gravemente le capacità militari dell’Asse della Resistenza creato da Teheran come bastione anti-israeliano di deterrenza avanzata. Per ripristinare un livello elevato di autodifesa resta all’Iran la possibilità di accelerare il completamento del proprio programma nucleare, in autonomia o con il sostegno russo o nordcoreano. Le stesse aperture del Presidente iraniano Pezeshkian, all’indomani della sua elezione, circa la possibile ripresa del dialogo con l’Occidente per un accordo nucleare, potrebbero celare un obiettivo tattico: guadagnare tempo e avanzare segretamente verso l’arma nucleare qualora tali negoziati dovessero andare per le lunghe o fallire.
Il governo israeliano si pone dunque una domanda, anch’essa esistenziale. Se l’obiettivo ultimo dell’Iran, già enunciato dallo stesso Khomeyni, è in ultima analisi la distruzione di Israele e se l’Iran è sempre più vicino all’arma atomica, quali possono essere le contromisure?
Il divieto di Biden a Israele di lanciare un attacco contro i siti petroliferi o nucleari iraniani intendeva certamente evitare un aggravamento della crisi prima delle elezioni americane. Ora non si può escludere che il periodo tra il 5 novembre, data delle presidenziali, e metà gennaio, data dell’insediamento del nuovo Presidente, sarà un momento critico poiché in Israele aumenteranno le voci a favore di un attacco risolutivo contro l’Iran. Tuttavia, se la parziale neutralizzazione delle difese aeree iraniane equivale ad avere messo un piede nella porta, ciò non significa averla aperta. Se decidesse di colpire i siti nucleari iraniani, Israele dovrebbe ottenere il sostegno americano poiché non dispone probabilmente di tutte le capacità belliche per poter operare in piena autonomia. L’alternativa potrebbe essere un attacco ai siti petroliferi in Iran che colpirebbe gravemente la già disastrata economia iraniana ma rischierebbe di scatenare una risposta contro le installazioni petrolifere saudite. A Riyad se ne è ben consapevoli e si conserva la vivida memoria degli attacchi devastanti del settembre 2019 contro i siti ARAMCO, realizzati dagli Houthi con la luce verde iraniana.
L’Arabia Saudita è oggi alle prese con le ambizioni iraniane di egemonia regionale e con le proprie di realizzazione del piano Vision 2030, mirante a trasformare il Regno in una potenza moderna. Il principe ereditario Mohammad Bin Salman ha legato a Vision 2030 il suo nome e la sua credibilità interna e internazionale. Questo imponente programma non è solo un piano di sviluppo economico, ma prevede riforme che, per la loro portata modernizzatrice, possono incidere profondamente nella società saudita e ridimensionarne le frange più conservatrici.
Per la realizzazione di Vision 2030 il Regno ha assoluta necessità di mantenere la propria sicurezza e dunque la stabilità regionale. A tal fine Riyad ha due strade. La prima, preferita, è un ombrello protettivo americano e, a livello regionale, la normalizzazione con Israele. Era questo l’obiettivo del negoziato, ora congelato anche a causa della guerra a Gaza, tra Stati Uniti e Arabia Saudita per l’ottenimento di garanzie di sicurezza verso l’Iran e collaborazioni in campo militare e nucleare. L’alternativa è una distensione con l’Iran. L’accordo per la ripresa delle relazioni bilaterali tra Riyad e Teheran, propiziato dalla Cina, o i recenti incontri tra il ministro degli esteri iraniano e MBS lasciano aperta questa porta qualora l’obiettivo principale non sia raggiungibile.
La complessità delle scelte che i protagonisti di questa crisi dovranno compiere finirà per segnare, nel bene o nel male, i futuri assetti della regione, in uno scenario che si profila sempre più come una riedizione mediorientale del “Grande Gioco”. Vedremo presto se, come stabiliva il codice barbaricino, le future decisioni dei principali protagonisti regionali risponderanno a un approccio proporzionale, progressivo e, soprattutto, prudente.
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