Carlo Ratti: “Basta costruire contro la natura”
Il curatore della Biennale Architettura che aprirà a Venezia nel 2025 svela “Intelligens”. Un progetto che parte dai dati per studiare le città del futuro e imparare dagli errori fatti in passato
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Il curatore della Biennale Architettura che aprirà a Venezia nel 2025 svela “Intelligens”. Un progetto che parte dai dati per studiare le città del futuro e imparare dagli errori fatti in passato
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Il curatore della Biennale Architettura che aprirà a Venezia nel 2025 svela “Intelligens”. Un progetto che parte dai dati per studiare le città del futuro e imparare dagli errori fatti in passato
Venezia. Urgenza, pragmatismo, fiducia nella possibilità di affrontare come gens umana la sfida del futuro. A Ca’ Giustinian, mentre dalle finestre scorre lo spettacolo del Canal Grande di Venezia, Carlo Ratti presenta il tema della Biennale Architettura 2025 (10 maggio-23 novembre 2025) di cui è curatore, e che si intitola proprio così: Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva. Cinquantatré anni, torinese, architetto e ingegnere con una carriera divisa tra il Politecnico di Milano e il Mit di Boston, dove dirige il Senseable Cities Lab, Ratti parla rapidamente, come se il tempo non bastasse per tutti i pensieri che gli turbinano in testa. E un’urgenza, quella di affrontare il cambiamento climatico come questione prioritaria per la sopravvivenza sul pianeta, è quella che vuol far emergere subito, fin dalla conferenza stampa di questa Biennale di cui il presidente Pietrangelo Buttafuoco si dice «orgoglioso, perché Ratti è un uno che vale diecimila». Di fronte a una platea collegata anche in streaming da tutto il mondo, Ratti lo dice chiaro, e del resto il Mit è uno degli istituti guida per gli studi ambientali: «Abbiamo dati sul climate change che non avevamo due anni fa o un anno fa, e ci dicono che il cambiamento è molto più accelerato di ciò che si era ipotizzato. Un ritmo che potrebbe essere fuori controllo presto». Se non abbiamo una soluzione, abbiamo però delle armi. E per il curatore di Intelligens, titolo che sembra voler preconizzare una nuova specie umana, l’architettura è una delle armi a disposizione.
Partiamo dal titolo “Intelligens”: un riferimento al passato remoto e insieme al futuro dell’umanità.
«Dal termine intelligens latino derivano le parole intelligenza e intelligence in inglese. E gens significa gente, persone. È il titolo che abbiamo voluto dare alla prossima Biennale. Da un lato, per ricordare che l’architettura nasce nei primordi come risposta umana a un ambiente non perfettamente adatto a noi, anzi più o meno ostile; dall’altra per mostrare che le sfide che l’umanità deve affrontare, in primis quella del cambiamento climatico, necessitano di una dimensione dell’intelligenza che deve essere triplice: ossia naturale, come capacità di adattarsi all’ambiente con risorse e conoscenze limitate; artificiale, senza pensare a questo artificiale in termini ristretti all’IA di Chat Gpt, ma come capacità di integrare dati e tecnologie; e collettiva, anche nel senso di interdisciplinare. Quando a metà dell’Ottocento lo spagnolo Ildefons Cerdà scrive la sua Grande teoria dell’urbanistica, si augura che grazie ai dati l’urbanistica diventi un giorno quasi una scienza. Oggi siamo di fronte a una concezione di città non più solo come città fisica, ma come città che possiamo indagare, grazie alla raccolta dei dati e alla loro interpretazione, su dimensioni diverse. Quel che ora ci serve è il passo in più: partire dall’intelligenza dell’ambiente che ci circonda e integrarla nella progettazione».
Che tipo di progettazione?
«Partirei dicendo che c’è molto poco da costruire. La popolazione del mondo sta ormai calando. Secondo le proiezioni, è previsto un picco tra qualche decennio – cresce ancora l’Africa, cresce qualche sacca in Asia – ma il resto del mondo cala a una velocità imprevista. Il Giappone, ad esempio, perde quasi un milione di persone l’anno. In questo contesto costruire non è l’obiettivo del XXI secolo. Il XX secolo è stato il secolo dell’esplosione demografica e dell’urbanizzazione, ora dobbiamo rimettere a posto alcuni di quegli errori, usare l’architettura diversamente. In Italia non c’è da usare più un metro quadro di territorio vergine: la popolazione non cresce e gli standard abitativi non stanno cambiando. Non dobbiamo costruire il nuovo, dobbiamo rimettere a posto ciò che abbiamo già in modo da far sì che le città lavorino sempre di più con la natura e non contro la natura».
Può fare un esempio?
«Siamo a Venezia. Ieri sera, grazie al Mose, ci si bagnavano i piedi ma non c’era l’acqua alta. Il Mose ora permette di evitare gli estremi, ma già sappiamo che non basterà per sempre, che in un prossimo futuro il livello del mare sarà troppo alto. Dobbiamo usare questo genere di progetto integrato tra architettura, scienza dei sistemi marini, ingegneria, per sopravvivere, e farlo in maniera flessibile».
Lei cita a proposito di questa flessibilità “Opera Aperta” di Umberto Eco, di cui è stato amico e con cui collaborò nella fondazione del Collegio di Milano. A Eco si è ispirato per il suo “Architettura Open Source”. Qual è la sua lezione?
«La visione che Eco esprimeva in Opera Aperta la possiamo applicare in molti modi, anche allo sguardo sulla natura: la natura procede per stadi differenti, non c’è mai un progetto completato; la natura è sempre un’opera aperta. Anche alla Biennale applico questa visione, ad esempio con la Raccolta di Idee, che prevede che si possano fare proposte, anche attraverso il sito. E poi ho chiamato a raccolta persone di ambiti diversi, di qua e di là dell’Atlantico, anche scienziati. Ci sarà, anche se non posso fare il nome, un collega di Harvard che studia come anche i batteri si organizzano per creare delle micro città in cui avvengono meccanismi simili a quelli delle città macro».
Pur non potendo rivelare i team di architetti che ha selezionato, qual è il loro profilo?
«Penso a un architetto corale, capace di armonizzare discipline diverse, dall’arte alle scienze sociali alle teorie della complessità. Ci piace l’idea che ogni progetto presentato serva a produrre conoscenza originale. Alcune cose funzioneranno, altre no, ma è importante che la Biennale faccia da catalizzatore. Allo stesso modo, spero che gli Stati che arriveranno qui con i loro Padiglioni nazionali sentano la spinta a lavorare tutti su questo tema della sfida al cambiamento climatico. Quando lavorai alla Biennale del 2014 curata da Rem Koolhas, c’era già questa idea di coordinare tante voci per lavorare insieme su un unico tema, facendo della Biennale una sorta di global toolbox, una cassetta degli attrezzi globale per affrontare il futuro».
I giovani soffrono di “climate anxiety”. L’architettura può servire come risposta?
«L’architettura è ottimista direi per definizione, perché è proprio nella sua natura di essere uno strumento per immaginare soluzioni. Non tutte funzionano, ma dobbiamo provare».
Qual è l’errore che non possiamo più fare?
«Non possiamo più permetterci l’esuberanza irrazionale, con un termine che si usa anche per i mercati. Il Novecento ha visto l’apoteosi di un modello dualistico, di un antagonismo; penso a Brasilia, bellissima ma praticamente atterrata in mezzo al cerrado, alla savana brasiliana, come un aeroplano, ignorando tutto quel che c’è intorno. L’esuberanza novecentesca ci ha fatto dimenticare come immaginare città che dalla natura possano imparare».
Nell’immagine: Carlo Ratti, curatore della Biennale Architettura che aprirà a Venezia nel 2025
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