Così la vittoria totale fa allontanare la pace
Di Salvatore Settis, La Stampa Due guerre mondiali non sono bastate all’Europa. Di fronte agli scenari di guerra che ci assediano, uno in piena Europa e l’altro alle sue porte, i...
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Di Salvatore Settis, La Stampa Due guerre mondiali non sono bastate all’Europa. Di fronte agli scenari di guerra che ci assediano, uno in piena Europa e l’altro alle sue porte, i...
• – Redazione
Ecco le tre mosse con cui l’ex presidente tenta di consolidare questo “momento” per rendere arduo un recupero di Kamala Harris nell’ultimo miglio della sfida per la Casa Bianca
• – Redazione
La pratica vecchia di secoli, è stata usata in passato anche da Israele. Ma i palestinesi usati come scudi indossavano sempre abiti civili: vestendoli con le uniformi, l’esercito israeliano altera la logica stessa dello scudo umano, tramutandolo in "foraggio". È il razzismo applicato alla guerra
• – Redazione
Una riflessione sullo stato della salute mentale in Israele dopo che anche Shirel Golan, una delle sopravvissute al massacro del Nova Festival il 7 ottobre 2023, si è tolta la vita nel giorno del suo ventiduesimo compleanno
• – Sarah Parenzo
Di Antonella Sinopoli, valigia blu Una crisi a strati o meglio stratificata. Alex de Waal, uno dei principali studiosi del Sudan e direttore esecutivo della World Peace...
• – Redazione
Si riunisce oggi, sotto la presidenza russa, l’organismo del Sud del mondo. Mentre G20 e G7 perdono peso, il progetto di liberarsi dalla “signoria” del dollaro avanza
• – Redazione
Passa il referendum costituzionale con il 50,4%, la presidente Sandu va al ballottaggio. Bruxelles: interferenze russe senza precedenti. Mosca: elezioni antidemocratiche
• – Redazione
Non si possono cogliere fino in fondo le tensioni se non si tiene conto della strategia dominatrice e restauratrice di Vladimir Putin
• – Redazione
Provate a scriverlo in cifre: centomila miliardi di dollari. Intanto Cina, Russia e Sud globale tentano di varare un sistema monetario alternativo a quello dominato dal dollaro
• – Aldo Sofia
Di Ettore Sequi, La Stampa Gli sviluppi degli ultimi giorni, tra cui l’attacco di Hezbollah contro l’abitazione del Primo Ministro Netanyahu, rendono ancora più complesso e...
• – Redazione
Due guerre mondiali non sono bastate all’Europa. Di fronte agli scenari di guerra che ci assediano, uno in piena Europa e l’altro alle sue porte, i nostri governi, incluso quello dell’Unione, non sentono l’urgenza della pace ma scelgono per chi parteggiare nella guerra. Con Zelensky contro Putin (ma non tutti sono d’accordo, e chi lo è s’industria a evidenziare differenze e sfumature), con Israele contro Hamas oppure – e qui le divisioni si fanno più frequenti, più forti – coi palestinesi contro Israele. Come se questo, e questo solo, fosse il bivio: scegliere a chi dar ragione e a chi dar torto. Prendere le parti di uno dei contendenti è ovviamente più che comprensibile, ma il vero bivio che sfida la nostra responsabilità come cittadini (e non solo quella dei governi) è fra la guerra e la pace. Il rischio che i conflitti si estendano (basti pensare all’Iran) è sempre più grande, il ricorso alle armi atomiche sempre meno lontano. Prende piede l’ipotesi che altri conflitti nascano nelle zone più «calde» del pianeta, e che la mappa delle guerre si complichi e si trasformi in una conflagrazione mondiale.
Eppure l’Ue, e molti governi nazionali fra cui il nostro, allungano i tempi della guerra russo-ucraina con ingenti forniture di armi, e sposano (o dicono di sposare) in toto la linea di Zelensky, una vittoria assoluta sempre dietro l’angolo. Come se non si sapesse che una vittoria totale (dell’uno o dell’altro) è impossibile. Non mancano voci autorevoli, e fra queste soprattutto il Papa, che si prodigano in favore della pace. Ma non vi sarà mai pace senza negoziati prevedibilmente complessi, a esito dei quali – questa la lezione di millenni di storia umana – ognuno dei contendenti dovrà fare qualche passo indietro per poter fare qualche passo avanti. È giusto parteggiare per questo o per quello, anche in una guerra: ma fra le parti terze solo chi sa esercitare in proprio una decisiva influenza negoziale può ottenere qualche risultato. L’Unione europea nacque sulle macerie e i morti della guerra 1939-’45, e nacque proprio per creare in Europa uno spazio di pace e una cultura della pace: ma gli sforzi per la pace di chi oggi la governa, ma anche dei governi nazionali, sono desultori, inefficaci, qualche volta ridicoli. È un fallimento epocale, ed è vano tapparsi gli occhi per non vedere: chi non vuol capire oggi dovrà capire domani, dovrà arrampicarsi sugli specchi per non ammettere la propria cecità.
L’ansia con cui i nostri governi trattengono il fiato aspettando l’esito, tra poche settimane, delle elezioni americane è una cartina di tornasole di questa rinuncia alla via diplomatica e negoziale della pace, che vale l’abdicazione dell’Unione alla propria missione. Molti, e speriamo non tutti, sembrano pronti a riorientare le proprie scelte a seconda di chi sarà il nuovo presidente Usa. La speranza che l’Unione potesse trovare una voce propria, anche dentro la Nato, si è svuotata: ma questo non rafforza l’alleanza atlantica, la indebolisce riducendola a una forma di lealismo al Grande Fratello americano, che intanto vacilla in preda a una crisi di democrazia sempre più marcata (la New Rome dell’ultimo film di Coppola, Megalopolis). Le linee di separazione fra osservanze ormai antiche (la destra, la sinistra) ondeggiano ogni giorno di più: gli atlantisti più fedeli si trovano spesso a «sinistra», i (timidi) critici della Nato a «destra» in molti Stati dell’Unione, ma spesso in nome di rozzi sovranismi locali. Ma l’Unione come tale non trova una voce propria, anzi nemmeno la cerca. Come aspettasse il «la» da oltre Oceano.
Ci stiamo gradualmente assuefacendo a un’economia di guerra, e nemmeno ci poniamo l’antica domanda del «cui prodest?». Troviamo normale che enormi spese pubbliche vadano in armamenti, sia sul nostro suolo che in Ucraina, a scapito della sanità, della scuola, del controllo idrologico e geologico del territorio, della ricerca, della cultura, della vita stessa della nazione. Cresce la disoccupazione, si allargano (diagnosi Istat) le frange di povertà, calano la natalità e la speranza di vita. Questa deriva conviene, si capisce, a chi fabbrica le armi e le vende. Conviene a chi, mancando di qualsiasi altra nozione o idea, sbandiera slogan xenofobi per raccogliere manciate di voti inconsapevoli. Conviene a chi occupa il potere e lotta strenuamente per conservarlo, in una guerra di posizione miope e irresponsabile, fatta di slogan e non di pensiero.
La riluttanza, per non dire incapacità, di fronte al grande e lungimirante tema della pace in Europa (e non solo) è il peccato originale da cui discende questo nostro concentrarci su risse di cortile, il micromanagement della politica, l’inabilità di mettere in discussione prassi e priorità pigramente ereditate da decenni di esitanti governi, la geometria variabile dei partiti e delle appartenenze, il piccolo cabotaggio di una «governabilità» di comodo. Intanto, in nome di una pigra Realpolitik il discorso politico è dominato da un atlantismo di maniera che evoca fuori stagione l’imperialismo sovietico, non senza nostalgia per la cortina di ferro che non c’è più. È questa fedeltà atlantica ribadita come una giaculatoria che impedisce di cogliere il nesso strettissimo fra politica estera e politica interna. L’opzione per una guerra esterna che fomentiamo senza sospettare che può dilagare anche «a casa nostra» impedisce d’intendere il fallimento dell’Unione europea di cui continuiamo a celebrare stancamente la mera esistenza in vita, senza volerne vedere la fragilità e le malattie.
Solo un’energica azione per la pace mediante il negoziato, in Medio Oriente come in Ucraina, potrebbe interrompere questo perverso circolo vizioso. Ma in Europa (salvo che in Vaticano) non se ne vede traccia.
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Coppa d'Africa iniziata ieri: il calcio può svolgere un ruolo contro la violenza, più che corsi di tattica servono luoghi dove incontrarsi e capirsi