David Grossman: “Dal 7 ottobre a oggi un dolore indicibile. Israeliani e palestinesi meritano un futuro di pace”
Lo scrittore israeliano David Grossman è stato intervistato a Repubblica delle idee da Maurizio Molinari
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Lo scrittore israeliano David Grossman è stato intervistato a Repubblica delle idee da Maurizio Molinari
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Lo scrittore israeliano David Grossman è stato intervistato a Repubblica delle idee da Maurizio Molinari
“Possiamo ritrovare il dialogo se abbiamo l’audacia della pace, di riconoscere l’altro. Gli ebrei che non sono mai stati maggioranza nei Paesi in cui hanno vissuto, ora in Israele devono avere la forza di includere le minoranze. La scrittura è il contrario della guerra: salvare l’individualità, riscattare l’individuo dalla massa, concedergli l’umanità”. Così ieri sera lo scrittore David Grossman intervistato dal direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, sul palco di Repubblica delle Idee e Bologna.
Abbiamo prima assistito al dolore di Israele il 7 ottobre e abbiamo poi assistito e al dolore di Gaza, alle vittime civili israeliane e a quelle palestinesi, come dobbiamo guardare a questa tragedia?
“Per prima cosa dovremmo comprendere che è successo qualcosa di orribile, al di là della possibilità umana di sopportare l’orrore, penso che dobbiamo essere esatti, con tutta la mia simpatia per quelli che sostengono la libertà della Palestina, penso che fintanto che dire Palestina libera significa che Israele non deve esistere, gli israeliani non si sentiranno sicuri e fintanto che gli israeliani non si sentiranno si curi, i palestinesi non si sentiranno sicuri. Bisogna fare appello a un rapporto di buon vicinato e questo è molto più difficile”.
Quanto è importante un rapporto di rispetto reciproco in un conflitto?
“Quando c’è un conflitto è difficile chiedere di avere sfumature rispetto la nemico, invece sono essenziali, non bisogna farsi travolgere dal pregiudizio e dalla generalizzazione, è difficile risolvere questa contraddizione, capire che il nemico è un altro essere umano come te, ha bisogno e si merita la stessa dignità lo stesso rispetto. Però quello che io do al nemico, lo voglio dal nemico. Non ci si deve vedere come mostri, ma come esseri umani intrappolati in un conflitto e solo quando ci si comincerà a trattare gli altri come essere umani sarà l’inizio dell’inizio di una via d’uscita”.
C’è qualcosa che accomuna il dolore di Israele per il 7 ottobre e il dolore per le vittime civili di Gaza: è il senso della violazione delle proprie case. Quanto è importate la difesa del luogo cui si appartiene per costruire la convivenza?
“Gli ebrei sia come singoli che come collettività non si sono mai sentiti a casa loro nel mondo, desiderati e accettati. L’idea di costruire lo stato di Israele è stata concepita per avere un focolare. Mi spezza il cuore vedere che dopo 76 anni di indipendenza e sovranità dello Stato ancora non ci sentiamo a casa nostra. Sentire di stare a casa vuole dire essere liberi, non avere conflitti con i vicini e sentire che questo posto è il più rilevante per te ne. Noi ancora combattiamo, sopravviviamo, compiamo sacrifici, non siamo abbastanza coraggiosi né furbi per creare situazioni che aiutino i nostri vicini a interiorizzare il fatto che noi apparteniamo a questo luogo”
Al centro della ferita del 7 ottobre c’è la questione degli ostaggi, centinaia di famiglie hanno ancora ostaggi a Gaza, quanto è profondo questo dolore?
È una sensazione orribile, sento che fa parte di me, io mi sento ostaggio di Hamas, fa parte della mia anima e del mio cuore, non c’è giorno in cui io non pensi a gente che marcisce, violata, abusata, tormentata. Esseri umani che non hanno nulla a che vedere con il conflitto, strappati dai loro letti col pigiama, con la brutalità più atroce. Queste sono le persone per cui è importante che Israele arrivi alla fine del conflitto, a una tregua, per poter riportare gli ostaggi a casa loro”.
Al centro del dolore dei Palestinesi a Gaza ci sono le migliaia di vittime, moltissimi bambini. Come vivono gli israeliani il dolore dei palestinesi?
“Penso che la maggior parte degli israeliani quasi non sia consapevole di cosa stanno passando i palestinesi e del loro spaventoso, tremendo dolore. Ci sono pochi canali di comunicazione, se c’è un senso di rimorso, viene accantonato. Noi abbiamo la responsabilità di porci nei loro panni. Noi israeliani dobbiamo consentire alla narrazione dei palestinesi di infiltrarsi nella nostra, questo non danneggerà gli israeliani, ci aiuterà a assumerci la responsabilità di ciò che stiamo facendo a Gaza”.
Il mondo ha visto negli accordi di Oslo nel 1993 l’orizzonte dei Due Stati, della convivenza in pace e sicurezza. Cosa di quell’orizzonte resta tra noi?
“Il conflitto è entrato sotto la palle, ci vuole tempo per guarire e superare il pregiudizio. Tante cose hanno avvelenato la nostra vita, ma anche se la situazione adesso è estremamente deprimente, siamo tutti tristi, in realtà io credo che se ci verrà data la possibilità di avviare un processo di dialogo, una cosa basica, capire meglio i propri errori e gli errori del nemico, se riusciamo a fare questo, a capire quanto è forte questa possibilità e quanto tutti gli altri siano uniti nella paura dell’Iran, questo può cominciare a far cambiare le cose. Solo se non ci si dimentica dei palestinesi, perché in effetti gli accordi firmati fino adesso li ignorano, li hanno messi da parte. Dobbiamo coinvolgerli, senza questo non ci sarà la pace, volenti o nolenti, sono partener di pari livello e sono essenziali. Meritano di avviare insieme un processo di guarigione e ripresa per capire che si può accettare anche la controparte anche se tutto questo confligge con i nostri dolori e le paura più profonde, forse ci può essere und cambiamento di atteggiamento”.
Cosa significa essere uno scrittore nel bel mezzo di un conflitto così brutale?
“È l’opposto di quello che ho descritto finora, se in tempi di guerra devi ignorare la complessità del nemico, la narrativa è salvare l’individualità, riscattare l’individuo dalla massa, concedergli l’umanità, la grandezza, la dignità. Ogni persona è un mondo intero, essere uno scrittore è prendere l’individualità come una sfida, come una benedizione, come la grandezza di ciò che gli esseri umani possono creare gli uni per gli altri. Per questo motivo anche in tempi duri come quelli attuali, ogni mattina quando entro nel mio studio sento che non ho voglia di stare lì, che non posso scrivere quando la realtà è così brutale. Poi mi volto e dico: ehi, ho scritto alcune pagine, mica male. Poi voglio solo restare nel mio studio e sentire la grandezza della creatività, perché c’è qualcosa di profondamente umano. Penso sempre quanto siamo fortunati noi artisti, che gran privilegio che abbiamo nel nostro mondo così ottuso che generalizza, noi facciamo qualcosa di preciso. È un grande piacere scrivere con precisione, con sfumature, in un mondo che ignora le sfumature in un mondo tentato da ogni genere di pregiudizi, odio, invece noi ci consentiamo di fare il bene on la B maiuscola, è una cosa che ti infonde tanta vita e energia. Siamo diventati dipendenti dalla guerra, dalla brutalità, dalla violenza. quando scriviamo restituiamo a noi stessi qualcosa che la situazione ci ha confiscato”.
Nel 2008 è uscito il libro “A un cerbiatto somiglia il mio amore”, in cui lei racconta la storia di una famiglia intrappolata nella realtà, quanto somiglia a ciò che sta avvenendo oggi?
“Spero che dica quanto sia distruttivo per una famiglia rimanere intrappolata nel conflitto, vivere nell’odio e quanto sia fondamentale far vivere i propri figli nei valori di dialogo e reciprocità, quando la realtà attorno a te è così crudele e severa; se non crediamo più nella capacità di creare dei figli migliori di noi, la guerra l’abbiamo persa”.
Quando una persona, una comunità, un popolo sono intrappolati nella paura, nell’odio e nella guerra, qual è la strada dentro di noi per uscire da questa paura?
Se riconosciamo gli elementi della nostra società che infiammano le nostre peggiori qualità, quello è l’inizio. Capiamo che le persone che pretendono di essere i nostri protettori sono in realtà i nostri peggiori nemici. L’estrema destra in Israele sta impedendo ogni accordo con Hamas, adesso parlano di ricolonizzare la striscia di Gaza. Quelli sono i nostri nemici, sono nemici non solo dell’idea della pace ma della possibilità e la speranza di avere una vita migliore”
Israele è segnata da proteste contro il governo, da dove nasce questa separazione tra la gente che scende in piazza e il governo del primo ministro Netanyahu?
“Fino al 7 ottobre le manifestazioni erano contro il partito di Netanyahu, accusato di togliere valore alla Corte Suprema, dopo il 7ottobre queste dimostrazioni sono cambiate. Adesso sono appelli a Netanyahu per fare di tutto per portare a casa gli ostaggi. Poi ci sono dimostranti che chiedono immediatamente nuove elezioni. C’è una scarsa fiducia non solo nei confronti dei membri della Knesset, ma anche nei confronti del primo ministro. Ha avvelenato l’atmosfera, potrebbe anche essere stato l’insegnante di Machiavelli per la manipolazione”.
Hamas era sicuro che dopo il 7 ottobre ci sarebbe stata un’insurrezione in suo favore da parte degli arabi israeliani e degli arabi che vivono in Cisgiordania, non è successa nessuna delle due cose, che spiegazione si è dato?
La minoranza araba dentro Israele è molto più matura sul piano politico di quanto non lo fosse con l’Intifada, c’è una certa riluttanza ad appartenere al campo di Hamas, lo dicono apertamente: . È l’inizio di un atteggiamento nuovo. Io spero che Israele riconoscerà la grande responsabilità della maggioranza ebraica di Israele di accogliere la minoranza araba. Noi ebrei siamo sempre stati una piccola minoranza nei Paesi in cui siamo vissuti, in Israele, in quanto maggioranza abbiamo una responsabilità nei confronti delle minoranze, non è facile per nessun Paese, è difficile, eppure è un’esigenza cruciale capire la trappola in cui si dibattono israeliani e palestinesi. È una delle situazioni più complicate della storia, sciogliere questo nodo di odio richiederà decenni, se non avremo il coraggio di capire che questa guerra tra noi e i palestinesi non può essere vinta”.
Davanti al confine con Gaza c’è un kibbutz che si chiama Nir Oz, ha avuto le perdite più alte, qui vive ancora un’unica persona, Nathan, ha 94 anni, un pioniere sionista socialista fondatore. Quando gli hanno chiesto come si viveva prima, ha raccontato che erano in contratto con i cittadini di Gaza e quando gli è stato chiesto: lei rifarebbe la stessa cosa? Lui ha detto sì. Cosa c’è nel suo cuore?
È il simbolo di una cosa che affonda radici profonde nel cuore del sionismo, il movimento che voleva una casa e un focolare per gli ebrei nella terra di Israele. Se io fossi vissuto prima del ’48 sarei stato un sionista. Dopo la fondazione dello Stato il sionismo aveva raggiunto l’obiettivo, questo 94enne vive con tutta l’anima un obiettivo ma professa la solidarietà nei confronti di qualcuno che dovrebbe considerare nemico. C’è una gioia di vivere che trasuda da un uomo come Nathan. Vorrei che ci fosse un sufficiente numero di persone che cominciano a combattere per la guarigione, questo ci darebbe il privilegio di non sopravvivere tra una catastrofe all’altra. La nostra gente ribolle dal desiderio di vendetta ma noi suggeriamo una cosa che non ha precedenti: riconoscere il fatto che siamo condannati ad avere la pace e gradualmente scoprirne i vantaggi. Questo tentativo va fatto perché lo meritiamo, entrambi i popoli. Israele non potrà vincere tutte le guerre del futuro, è un’esigenza esistenziale quella di fare la pace. Altrimenti siamo condannati a ripetere il circolo vizioso. Gli israeliani hanno fatto tanti miracoli, torniamo a uno spirito di dialogo, lo possiamo raggiungere solo se ne abbiamo il coraggio, l’audacia e l’intelligenza per farlo”.
Nell’immagine: David Grossman durante l’intervista
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