Dove va l’Europa? È un problema anche nostro
Agli svizzeri non importa nulla delle prossime elezioni del Parlamento europeo. C'era da aspettarselo, ma è un errore
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Agli svizzeri non importa nulla delle prossime elezioni del Parlamento europeo. C'era da aspettarselo, ma è un errore
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Agli svizzeri non importa nulla delle prossime elezioni del Parlamento europeo. C'era da aspettarselo, ma è un errore
In primo luogo, l’economia. Le preoccupazioni si accumulano. La principale risorsa della Germania è minacciata. La sua industria – strettamente legata a quella svizzera – sta soffrendo per il costo esorbitante dell’energia dopo la rottura con la Russia, per l’attrazione esercitata dagli Stati Uniti, dove molte delle sue aziende stanno emigrando, e per la concorrenza cinese che, con le sue auto elettriche sta mettendo a dura prova il settore automobilistico. D’altra parte, la Francia è impantanata nel deficit e nelle tensioni sociali. L’Italia e la Spagna mantengono il morale alto, ma sono anch’esse oberate dal debito pubblico. I cosiddetti Paesi dell’Europa dell’Est se la passano meglio, addirittura bene: le loro economie sono diventate molto efficienti, grazie all’ingresso nell’UE, che è stata molto generosa nei loro confronti, ma lo slancio sta mostrando segni di rallentamento. Infine, tutti devono affrontare la sfida tecnologica degli Stati Uniti e della Cina.
Interrogativi: gli Stati riuniti a Bruxelles, nella configurazione che emergerà dalle urne all’inizio di giugno, daranno la priorità alla conoscenza, al sostegno all’impresa privata e, allo stesso tempo, al miglioramento sociale? Oppure la loro cosiddetta politica verde porterà alla decrescita? L’attuale attenzione alla corsa agli armamenti e agli aiuti all’Ucraina può aiutare alcuni settori industriali, ma sarà estremamente costosa. A Bruxelles si parla di 100 miliardi per questo scopo da qui al 2029. Ciò andrà inevitabilmente a scapito di altre aspettative, in termini di infrastrutture, istruzione, ricerca e coesione sociale. Per non parlare del fatto che la transizione ecologica, ci viene assicurato, richiederà un’ulteriore serie di miliardi. Quali priorità fisserà il nuovo Parlamento dell’UE? A seconda delle scelte fatte, l’impatto sull’economia svizzera sarà diverso. L’eccessivo armamento dell’Europa non ci fa guadagnare praticamente nulla, mentre la sua salute economica e sociale è molto più redditizia per noi.
Secondo punto. Il funzionamento stesso dell’Unione. Esistono due opinioni opposte. I fautori del progetto sanno di non poterla trasformare in uno Stato federale, ma vogliono rafforzare i poteri del Consiglio europeo (riunione dei capi di Stato e di governo) in particolare abolendo il diritto di veto delle nazioni, della Commissione, con nuovi compiti, e quelli auspicabili del Parlamento. Questa autorità aggiuntiva sarebbe giustificata per molti aspetti, al fine di unire le forze e rafforzare l’impulso collettivo. Ma sono pochi i leader nazionali che la sostengono. Perché è in contrasto con una tendenza importante, la rinascita del nazionalismo. Più poteri agli Stati, limitando quelli dell’Unione. Mettere fine a megalomanie come quella di Von der Leyen. Di più: smantellare la macchina dall’interno. Questi accenti si sentono in un ampio spettro. A destra, a destra della destra e anche a sinistra, sognano un’Europa sociale, a volte persino la fine del capitalismo. I sondaggi promettono il successo del partito di Marine Le Pen in Francia, dell’AfD in Germania, della versione dei patrioti della Meloni in Italia, e di partiti più o meno simili altrove.
Questi partiti non otterranno la maggioranza che permetterebbe loro di stravolgere tutto, ma stanno avendo un impatto sulle altre famiglie politiche europee. Un partner come la Svizzera potrebbe essere felice di trattare con un’autorità di “Bruxelles” indebolita piuttosto che rafforzata. Non è così. I nazionalisti, che fanno tutti il gioco dell’UE – non vogliono uscire né dall’UE né dall’euro – difficilmente vorranno seguire politiche di condivisione con i Paesi terzi, che talvolta descrivono come approfittatori e opportunisti. Spetterà a tutti, passeggeri o meno della grande nave dell’Unione, analizzare nel dettaglio la sua futura rotta. Un compito non facile, visto che dipenderà da un collettivo di 27 capitani!
Terzo punto. Le dimensioni dell’Unione. Che tipo di allargamento si prospetta? Lo scorso dicembre, il Consiglio europeo e la Commissione hanno espresso la volontà di procedere all’eventuale ammissione, a determinate condizioni, di diversi Paesi già candidati. Cinque nei Balcani, tre nell’est del continente. Più la Turchia, che aspetta, più o meno convinta, da vent’anni. Un bell’impulso idealistico o un’illusione geopolitica? Una nave con 36 membri? Nulla sarebbe più come oggi. Buona fortuna per convincere i nostri cittadini e contribuenti! Quanto agli svizzeri, che sono vincolati da tanti accordi, in particolare sulla libera circolazione delle persone, se il progetto andrà avanti suderanno freddo. E non avranno una parola da dire, perché in definitiva è così che abbiamo voluto.
Ma ci sono molti ostacoli lungo questa strada. Il processo dovrebbe iniziare a est, con l’Ucraina e la Moldavia. Sebbene i loro confini siano a dir poco mal definiti e le loro società marce per la corruzione, sono ancora molto lontani dal soddisfare i requisiti. Poi i Balcani, con Serbia, Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia settentrionale e Montenegro. Il Kosovo è ancora fuori dai giochi. Sono tutti Paesi problematici, che non sono ancora stati convinti all’unanimità a partecipare.
Sylvie Goulard, ex europarlamentare e volto noto dell’apparato, soffoca la rabbia nel suo recente libro, “L’Europe enfla si bien qu’elle creva” (Edizioni Taillandier). Ritiene che il risultato sarà probabilmente una cosa grande, flaccida e incoerente, solo un’altra organizzazione internazionale. È interessante notare che, a suo avviso, sono gli Stati Uniti a spingere in tal senso, per allargare il campo occidentale senza impegnarsi troppo, a scapito degli europei. Per lei, si tratta piuttosto di un’Unione che serra i ranghi, non allargando ma approfondendo l’azione comunitaria. E occorre immaginare, tutt’intorno, cerchi variabili di cooperazione. Come il prossimo accordo bilaterale CH-UE.
Non c’è ancora nulla di definito, ma si sta preparando tutto. Anche se l’una o l’altra di queste prospettive dovesse subire un ritardo indefinito o uno stallo, il panorama futuro sarà modificato. E noi svizzeri, che ci piaccia o no, abbiamo in un modo o nell’altro i piedi nel piatto.
Nell’immagine: Mini Europe, Bruxelles
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