Di Cory Doctorow, Financial Times (versione italiana da Internazionale)
I colossi tecnologici attuali sono diventati grandi sfruttando le tecniche del fai da te. Quando Facebook ha detto agli utenti di MySpace di fuggire dal panottico australiano dello spregevole Murdoch, non si è limitato a dire agli abbonati “in culo ai vostri amici, venite su Facebook ad ammirare la nostra bella politica sulla privacy e iscrivetevi”. Gli ha messo a disposizione un bot: bastava inserire il nome utente e la password di MySpace, e il bot si collegava a MySpace spacciandosi per l’utente, rastrellando tutto quello che c’era nella posta in entrata e copiandolo su Facebook.
Negli anni novanta, quando la Microsoft cercò di togliere ossigeno al mercato della Apple rifiutando di creare una versione funzionante di Microsoft Office per Mac, gli uffici buttarono via i loro eleganti Mac sostituendoli con pc con schede grafiche aggiornate e versioni per Windows di Photoshop e Illustrator. Allora Steve Jobs non pregò Bill Gates di aggiornare Mac Office, ma disse ai suoi tecnici di reingegnerizzare Microsoft Office e di realizzare un pacchetto di programmi compatibile, iWork, le cui applicazioni – Pages, Numbers e Keynote – leggevano e modificavano i file creati con Word, Excel e PowerPoint.
Quando Google è entrata sul mercato, ha inviato a ogni server web sulla Terra il suo crawler, che si presentava come un utente: “Ehi! Ciao! Avete delle pagine web? Grazie! Ne avete altre? Ne avete altre ancora?”. Ogni pirata, però, vuole essere un ammiraglio. Quando queste cose le facevano Facebook, la Apple e Google, si chiamavano progresso. Se le fai contro di loro, sono pirateria. Provate a creare un client alternativo per Facebook e vi diranno che avete violato leggi statunitensi come il Digital millennium copyright act (Dmca) o leggi dell’Unione europea come l’articolo 6 della direttiva europea sul diritto d’autore. Provate a sviluppare un programma per Android in grado di far funzionare le app dell’iPhone e di riprodurre i dati dei media store della Apple e vi bombarderanno fino a ridurvi a un cumulo di macerie. Provate a “raschiare” i dati di Google e vi arriverà addosso un ordigno nucleare.
La capacità dei colossi tecnologici di usare le regole contro i rivali è sconvolgente. Prendiamo la legge che ho citato prima, la sezione 1201 del Dmca. Bill Clinton l’ha approvata nel 1998 e l’Unione europea l’ha importata nel 2001 con l’articolo 6 della direttiva sul diritto d’autore. Entrambe le leggi stabiliscono il divieto generale di rimuovere qualsiasi tipo di codifica che restringa l’accesso a opere protette dal diritto d’autore, per esempio per copiare un dvd o per sbloccare un telefono. Rischiate cinque anni di prigione e una multa di 500mila dollari per la prima infrazione. La portata della norma è stata così ampliata che può essere applicata per mandare in galera perfino chi dà libero accesso alle proprie creazioni. Un esempio: nel 2008 Amazon comprò la Audible, una piattaforma di audiolibri. Oggi la Audible è una monopolista con più del 90 per cento del mercato e impone a tutti gli autori che usano la sua piattaforma di vendere le loro opere attraverso la “gestione dei diritti digitali” di Amazon, che è vincolata alle app di Amazon. Mettiamo che io abbia scritto un libro: lo leggo al microfono, do migliaia di dollari a un regista e a un ingegnere per trasformarlo in un audiolibro e poi lo metto in vendita sulla piattaforma della monopolista Audible. Se più tardi decido di andarmene da Amazon e di portare i miei lettori su una piattaforma concorrente, peggio per me: se metto a disposizione dei miei lettori uno strumento per rimuovere la crittografia di Amazon dal mio audiolibro, in modo che possano riprodurlo su un’altra app, commetto un reato punibile con cinque anni di reclusione e una multa di mezzo milione di dollari. È una sanzione più severa di quella in cui incorrerei piratando l’audiolibro da un sito di Torrent o rubando il cd dell’audiolibro a una stazione di servizio o sequestrando il camion che ha consegnato il cd.
Torniamo al blocco della pubblicità. Il 50 per cento degli utenti che navigano sul web usa il blocco della pubblicità. Tra gli utenti delle app, però, la percentuale è zero, perché per aggiungere il blocco a un’app bisogna prima rimuovere la crittografia, ed è un reato.
Perciò quando qualcuno in consiglio d’amministrazione si alza e dice: “Facciamo diventare i nostri annunci pubblicitari più molesti del 20 per cento e aumentiamo i ricavi del 2 per cento”, nessuno obietterà che così facendo si spingeranno gli utenti ad andare su Google a cercare: “Come si bloccano gli annunci pubblicitari?”. Perché la risposta è: non si può fare. Semmai, è più probabile che qualcuno dica: “Facciamo diventare i nostri annunci più molesti del 100 per cento e aumentiamo i ricavi del 10 per cento” (è per questo che oggi tutte le aziende vi fanno installare l’app invece di farvi andare sul loro sito).
Nulla vieta agli autisti di Uber sfruttati dagli algoritmi d’installare un’app alternativa, condivisa con tutti i conducenti, che rifiuta le corse al di sotto di una certa soglia di prezzo. Nulla lo vieta tranne la minaccia che il povero sviluppatore dell’app alternativa finisca sul lastrico o vada in galera per violazione del Dmca 1201, del Computer fraud and abuse act, del marchio, del diritto d’autore, del brevetto, del contratto, della riservatezza commerciale, della clausola di non divulgazione e di non concorrenza o, in altre parole, dei “diritti Ip”, che non è solo l’acronimo di “proprietà intellettuale”. È un eufemismo per “legge che permette di andare oltre i confini dell’azienda e di controllare la condotta dei miei critici, dei miei concorrenti e dei miei clienti”. Allo stesso modo, app è un eufemismo per “pagina web che sfrutta la legge sulla proprietà intellettuale per rendere illegale qualsiasi modifica del software che tuteli il diritto del lavoro, del consumatore e della riservatezza dei suoi utenti”.
Cory Doctorow è un giornalista e scrittore canadese. Si occupa di diritti digitali e sicurezza informatica. È consulente dell’Electronic Frontier Foundation, un’organizzazione non profit che difende i diritti digitali e la libertà d’espressione su internet. Questo articolo è l’adattamento di un discorso tenuto a gennaio per la Marshall McLuhan lecture all’ambasciata del Canada di Berlino