La cassetta degli attrezzi di Abraham Yehoshua
Pensando al grande scrittore nel secondo anniversario della morte: in un momento così tragico, è il caso di riaffidarsi al suo pensiero complessivo capace di traghettare il paese fuori dalla crisi
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Pensando al grande scrittore nel secondo anniversario della morte: in un momento così tragico, è il caso di riaffidarsi al suo pensiero complessivo capace di traghettare il paese fuori dalla crisi
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Pensando al grande scrittore nel secondo anniversario della morte: in un momento così tragico, è il caso di riaffidarsi al suo pensiero complessivo capace di traghettare il paese fuori dalla crisi
Il 14 giugno di due anni fa moriva lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, appena in tempo per non vedere il suo amato paese entrare in una drammatica spirale di violenza e incertezza. Nato a Gerusalemme nel 1936, Yehoshua con la sua produzione letteraria e il suo impegno politico ci ha accompagnati per 85 anni, divenendo uno dei più importanti autori di narrativa contemporanea in Israele e all’estero. Dopo un’inziale produzione originale di racconti in nota surreale, tra i suoi capolavori si annoverano romanzi di spessore universale come L’amante, Un divorzio tardivo, Il signor Mani, Cinque stagioni, Viaggio alla fine del millennio e La sposa liberata.
Nonostante la sua proverbiale fantasia, sin da giovane lo scrittore ha messo la propria produzione letteraria al servizio della res publica israeliana, talvolta anche a scapito della profondità dei personaggi. Le sue opere sono dunque popolate di metafore, magistralmente orchestrate per esprimere il suo impegno e la sua lotta per garantire allo stato ebraico un futuro etico. Anche la sua prolifica saggistica, seppur facilmente confutabile in ambito accademico, perché non supportata da un apparato teorico sufficientemente solido, è corredata di una sorta di veemenza profetica che va compresa proprio a fronte dell’autentico desiderio che la nazione ebraica raggiunga una dimensione di normalità e stabilità all’interno di confini territoriali definiti, dove, finalmente responsabile del proprio destino, essa esercita la propria sovranità.
Negli ultimi anni Yehoshua era giunto all’amara constatazione che la soluzione dei due stati, da lui sempre sostenuta, si era ormai trasformata in uno slogan vuoto e geograficamente inapplicabile. Per salvare il progetto sionista a cui aveva dedicato con passione tutta la vita lo scrittore si è fatto allora coraggioso promotore di uno stato unico con pari diritti di cittadinanza per israeliani e palestinesi. Illustrata nei dettagli in due lunghi saggi pubblicati sul quotidiano Haaretz nel 2018, e presente tra le righe delle sue ultime creazioni letterarie: la proposta ha tuttavia spiazzato i connazionali imbarazzati che, a due anni dalla sua morte, preferiscono ancora ignorarla quasi fosse da attribuirsi a una fase senile, invece che all’esito più maturo di una riflessione lunga una vita. Al contrario, è proprio frugando nella cassetta degli attrezzi di Yehoshua – non a caso definito dal professor Avner Holtzman dell’Università di Tel Aviv un “mussàchnik”, ovvero un meccanico da officina affetto dall’ossessione di “aggiustare la realtà” – che israeliani ed ebrei possono trovare dei preziosi strumenti pratici per affrontare tanto la crisi interna alla società che i rapporti con l’esterno.
Pur con lo sguardo orientato al futuro, Yehoshua promuove una critica amorevole nei confronti del suo popolo che affonda le radici nel calore del mondo sefardita orientale, abituato a convivere con gli arabi in Palestina, come in Marocco, ben prima della fondazione di Israele. Inoltre, pur amando definirsi laico come i colleghi ashkenaziti con cui era in competizione, egli è pur sempre cresciuto in un ambiente tradizionalista, nipote da parte di padre del rabbino Hananya Gabriel, giudice del tribunale rabbinico sefardita di Gerusalemme. Da personaggi come Ben-Atar di Viaggio alla fine del millennio e Rivlin de La sposa liberata apprendiamo l’importanza del ruolo dei mizrahìm, gli ebrei provenienti dai paesi arabi, che detengono il potenziale non sfruttato di fare da ponte tra la società ashkenazita e quella palestinese, anche grazie alla conoscenza dell’arabo che l’autore ritiene fondamentale per la coesistenza e la profonda comprensione dell’altro. Yehoshua si muove a suo agio anche nel mondo cristiano-europeo, dove affida alla giovane Rachele Luzzatto (La figlia unica) il compito di combattere le discriminazioni nei confronti dei non ebrei, ben equipaggiata dalla tradizione giuridica ebraica e dalla melodiosa saggezza dei salmi in lingua originale.
La coesistenza passa dunque attraverso le lingue, ma richiede anche delle rinunce, che possono rivelarsi dolorose, come quella alla casa, nel caso di Yehuda Kaminka (Un divorzio tardivo), alla bigamia, nel caso di Ben-Atar (Viaggio alla fine del millennio), o persino alla verità come nel caso di Rivlin che affida al dipendente palestinese il segreto dell’incesto tra ebrei affinché lo custodisca (La sposa liberata). In quest’ottica, la Shoah e la cultura yiddish fanno parte della storia passata (La sposa liberata), mentre il futuro, per essere condiviso, implicherà dei compromessi come la convivenza con gli ultraortodossi e soluzioni alternative per la gestione dei luoghi santi di Gerusalemme (Il terzo tempio).
Yehoshua ha tradito la patria? Al contrario, voleva salvarla a tutti i costi anche rinunciando a quello in cui aveva creduto una vita intera e per questo va riletto oggi come l’intellettuale il cui pensiero è potenzialmente in grado di traghettare il paese fuori dalla crisi.
L’autrice è stata amica e collaboratrice di A. Yehoshua: leggi anche l’intervista a Sarah Parenzo che pubblichiamo oggi
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