La Costituzione a pezzi
Una riforma al giorno: martedì il premierato, mercoledì l’autonomia differenziata. Ma mancano gli equilibri tra i poteri
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Una riforma al giorno: martedì il premierato, mercoledì l’autonomia differenziata. Ma mancano gli equilibri tra i poteri
Una riforma al giorno leva la Costituzione di torno. Martedì ilpremierato, mercoledì l’autonomia differenziata. Oggi riposo, se lo sono meritati. Ma la domanda è se la meritano gli italiani, questa doppia innovazione. E non perché la nostra Carta sia un testo intangibile come il corpo dei defunti. Se una Costituzione è viva, di tanto in tanto avrà bisogno di ricorrere ai ferri del chirurgo. Né per opporre a ogni riforma un tic conservatore, che difenda a tutti i costi l’esistente. I conservatori non stanno sempre dal lato sbagliato della storia, i riformatori non sono sempre gli alfieri del progresso. Dipende da ciò che si vuole conservare, dipende da come si vuole riformare. Tutti vorremmo vita eterna per la nostra mamma, ma questo desiderio non ci trasforma in ottusi reazionari, nemici delle “magnifiche sorti e progressive”, come nel verso di Leopardi.
Da qui un ventaglio di dubbi, di obiezioni. Anche se a ben vedere il controcanto risuona già nel canto, dato che ciascuna delle due riforme obietta all’altra. La prima (il premierato) sancisce l’accentramento del potere nelle manone del capo; la seconda (l’autonomia differenziata) lo disgrega fra 20 caporali, quanti sono i governatori delle nostre Regioni. Con buona pace di due principi costituzionali, che restano ancora lì, iscritti nella Carta, però svuotati come conchiglie. L’articolo 67, che protegge la libertà dei parlamentari, e di conseguenza l’autonomia del Parlamento dal governo. L’articolo 5, che definisce la Repubblica italiana “una e indivisibile”.
Si dirà: ma pure l’autonomia regionale è un principio, pure la stabilità governativa è un valore. Giusto, ma tutto sta nel modo col quale i principi si traducono in regole cogenti. E tutto sta nel declinare i principi al plurale, non al singolare. Se l’autonomia fosse l’unico principio, in Italia avremmo 20 Stati. Se la stabilità fosse l’unico valore, allora Mussolini era un valoroso. E Putin – al potere da un quarto di secolo – valorosissimo, un eroe. Ecco infatti il veleno inoculato da questa doppia riforma: “la tirannia dei valori”, per dirla con Carl Schmitt. Sennonché le democrazie costituzionali sono pluraliste, il loro Olimpo è abitato da una pluralità di dei, non da un Padreterno onnipotente. E i principi costituzionali si compensano a vicenda, si bilanciano, si tengono in reciproco equilibrio. Né più né meno dei poteri dello Stato. Giacché dove c’è un potere, a fronteggiarlo dev’esserci un contropotere. Per impedirgli abusi, per evitare il rischio che la potenza del governo divenga prepotenza verso i cittadini.
Invece non c’è un limite alla nuova autonomia concessa alle Regioni. Ciascuna può rivendicare tutte e 23 le competenze in ballo, e senza nemmeno uno straccio di motivazione, senza argomentare la richiesta con le specifiche esigenze del proprio territorio. Di più: senza alcuna distinzione fra le singole materie. Che però non sono affatto uguali. Una cosa è la gestione di settori economici (come i porti o le casse di risparmio), una cosa ben diversa è la tutela dei diritti fondamentali (la salute, il lavoro, l’istruzione). Questi ultimi sono indivisibili: spettano nella stessa misura a tutti, giacché in caso contrario diverrebbero altrettanti privilegi. Approfondendo la frattura tra Settentrione e Mezzogiorno, che andrebbe viceversa ripianata.
Ma non c’è nemmeno un limite ai superpoteri che il premieratoreca in dote al presidente del Consiglio. A leggere da cima a fondo la riforma, non vi si trova un rigo per risarcire il capo dello Stato e il Parlamento della loro nobiltà perduta. Il primo deve rinunziare ai suoi poteri più pregnanti: la nomina del premier e lo scioglimento delle Camere. Che a loro volta divengono ostaggio del governo, se non proprio un’appendice. Perché vengono elette contestualmente al presidente del Consiglio, con un premio di maggioranza che non s’incontra in nessun’altra legge elettorale dei Paesi democratici. E perché se non obbediscono ai suoi ordini, i parlamentari vanno a casa, perdendo lo scranno e lo stipendio. Pesi senza contrappesi. Dopotutto, è questa la regola non scritta della doppia riforma che ci cade sul groppone.
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