Servono droni e vanghe
Il tragico paradosso di un paese bellissimo sommerso nel fango che progetta un Ponte identitario sullo stretto da miliardi di investimento
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Il tragico paradosso di un paese bellissimo sommerso nel fango che progetta un Ponte identitario sullo stretto da miliardi di investimento
• – Redazione
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Il tragico paradosso di un paese bellissimo sommerso nel fango che progetta un Ponte identitario sullo stretto da miliardi di investimento
Di Michele Serra, La Repubblica
Questo articolo è la fotocopia di dieci, cento, mille articoli di giornale già scritti e già letti. È il remake impotente, inascoltabile, di una solfa che ci esce dalle orecchie.
La solfa: la cura quotidiana dei nostri luoghi, con un territorio come quello italiano, e di fronte a mutamenti climatici drammatici, ma stra-noti e stra-annunciati, dovrebbe essere di gran lunga la prima, anzi la primissima attività del Paese, nonché la sua prima preoccupazione politica. La Grande Opera per eccellenza. La sola, vera Grande Opera. Ma non lo è, e aggiungo che non lo sarà mai.
Si straparla di futuro, ci si inebetisce di tecnologia e realtà virtuali, ma la tecnologia della ruspa e della zappa non siamo più capaci di usarla – a meno che produca qualche quattrino nell’immediato: si lavora oggi per domattina, già “dopodomani” è un concetto fumoso, l’idea del tempo è corrosa, nelle nostre teste, quanto gli argini dei fiumi.
Dicono i ragazzi di Ultima Generazione che il loro tempo ce lo siamo già mangiato noi adulti, lo abbiamo consumato tutto. Ultima Generazione, dunque, è il nome che meritiamo noi, non loro. Che, se ci sopravviveranno, saranno invece la Prima, e sicuramente non costruiranno Ponti sullo Stretto fino a che l’ultimo ponte di provincia, sopra il più sperduto dei fiumi, non sarà stato messo in sicurezza. Perché così dice l’intelligenza: prima il pane, prima la casa, prima il letto dove dormire, poi, se ne saremo capaci, verrà tutto il resto. Il Ponte sullo Stretto – ditelo in giro – è da radical-chic. È la brioche di chi non ha il pane. La vetrina scintillante di chi ha il negozio invaso dal fango.
Risalite qualunque vallata italiana, troverete torrenti e rii ingombri di detriti, argini precari, boschi abbandonati. Non risulta che droni li perlustrino per segnalare i tappi, le falle, gli inneschi delle future alluvioni. Le frane sono monitorate, ma non è monitorata l’erosione di risorse, e di volontà politica, che lascia valli e crinali al loro destino di abbandono e di trascuratezza. Non risultano pattugliamenti lungo gli impluvi e gli alvei, non risultano investimenti lontanamente simili a quelli bellici pur essendo, questa, precisamente una guerra. È una guerra civile tra quello che rimane della nostra parte buona – la previdenza, la pazienza, il senso del limite, la premura per le nostre comunità, l’amore per le nostre cose – e la nostra parte cattiva, l’avidità, la superficialità, la stupidità travestita, non meritandolo, da “modernità”.
Ruspa più drone, mani più computer, le armi le avremmo. Antiche e contemporanee, passate e future. La tecnologia dovrebbe sostenerci e darci più forza. Il regime delle acque non è Marte da colonizzare, è Terra da riparare, qualcosa di prossimo e di familiare che per paradosso ci sfugge. È davanti ai nostri occhi, davanti ai nostri portoni: eppure ci sfugge. La manutenzione dell’Italia non è attività quotidiana, non è argomento di dibattito, ce ne accorgiamo solo ogni volta che il nostro Paese ci bastona, ci prende alle spalle, ci sommerge, ci uccide.
La tecnologia, senza volontà politica, conta zero: è solo un vantaggio in più per i ricchi e i potenti. Avremmo i soldi e le armi per dichiarare guerra alla parte idiota e distruttiva di noi stessi. Ma non lo facciamo. Siamo troppo comodi e troppo illusi per capire la direzione giusta. Per giunta ci siamo dati un governo che, di crisi climatica e di ambientalismo, sa quanto io ne so di baseball. Si riempiono la bocca di Nazione, di Italia, ma della cura del Paese, delle emergenze vere, non hanno contezza alcuna: lo citano a vanvera, come se fosse un’Idea, non un corpo sofferente e manomesso dalla speculazione. Non è per buttarla in politica, è solo per dare un ulteriore segno di quello che siamo: non loro. Noi. Noi italiani.
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