Di Wlodek Goldkorn, La Repubblica
Il peggior delitto — delitto letterario non certo penale — è trasformare il nome di un autore di quelli di cui si dice che «hanno segnato l’epoca» in un aggettivo. È successo a Franz Kafka, uno scrittore che ha avuto una vita vera, ma che è diventato “kafkiano”, titolare di un aggettivo che segna una metafora. Non ne approfondiremo i significati: a ciascuno il suo, come si addice alle metafore appunto. È quanto viene in mente leggendo la monumentale — circa duemila pagine divise in tre volumi (Kafka. I primi anni; Kafka. Gli anni delle decisioni e Kafka. Gli anni della consapevolezza) — biografia dello scrittore nato a Praga il 3 luglio 1883 e scomparso il 3 giugno 1924 (un secolo oggi), in un sanatorio a Kierling in Austria. L’autore ne è Rainer Stach. In tedesco, questa opera è stata pubblicata fra il 2002 e il 2014 e ora il Saggiatore ne propone la versione italiana in traduzione di Mauro Nervi; un piccolo e prezioso miracolo editoriale.
Si è detto che Kafka ha avuto una vita vera. Il pregio del lavoro di Stach consiste nel tentativo di restituircela, di parlare del contesto storico, letterario, sociale, familiare in cui si è svolta l’esistenza, su questa terra, dell’autore de Il processo, La metamorfosi, America e via elencando. Così, a noi lettori vengono subito trasmessi alcuni dati e fatti:
Kafka dunque è stato un impiegato di un istituto di assicurazioni di Praga. Della sua vita durata quasi quarantun anni, oltre sedici li ha trascorsi nelle scuole e studiando all’università, a trentanove anni è andato in pensione; all’estero ha soggiornato per appena quarantacinque giorni; ha visto il mare tre volte; due sono state le sue fidanzate ufficiali di cui una, Felice Bauer, ben due volte; ha avuto relazioni amorose con altre quattro donne.
E ancora: ha lasciato circa quaranta testi completi in prosa, oltre a circa 3.400 pagine di diari e frammenti letterari; a trent’anni abitava ancora con i genitori; ha fatto attività sportiva: canoa, nuoto, ginnastica. Era vegetariano. Aveva un corpo: alto e magro. Faceva perfino sesso.
Stach non pretende e non vuole dare una chiave in grado di interpretare il significato della vita dello scrittore, è diffidente pure nei confronti della critica letteraria («la letteratura viene prima della critica», dice), cerca invece di costruire una narrazione che assomigli a un romanzo “dal vero”. A nostro avviso, con successo.
Fra le opere di Kafka non ci si sono solo i testi letterari. Da impiegato del “ramo assicurativo”, bravo, coscienzioso (anche se si lamentava per il tempo sottratto alla scrittura), meticoloso, c’è un manuale sulle regole di sicurezza quando si adoperano le pialle per il legno. Infatti, alcuni studiosi citano la vicinanza di Kafka ai gruppi anarchici e alla causa dei lavoratori; Stach la ridimensiona (sì è vero, ma senza la militanza), ma conferma la sensibilità dello scrittore per le questioni sociali.
Torniamo al contesto. Ecco, quando parliamo di Praga, luogo natio di Kafka, di che cosa parliamo? Tutti sanno che fino al 1918 faceva parte dell’Impero asburgico. E molti sanno, che il padre dello scrittore Hermann, a sua volta figlio di un macellaio casher, cresciuto nell’osservanza di riti e regole dell’ebraismo religioso, vi arrivò dalla provincia, aprì un negozio, ebbe un certo successo commerciale. Era un padre tirannico come si può dedurre dalla Lettera al padre? E la storia familiare come si inserisce nella storia della città? E, a sua volta, come la storia che si svolgeva davanti agli occhi del giovane Franz modellò la sua appartenenza al tedesco, la lingua in cui scriveva? Aveva altre lingue del cuore? Domande a cui seguendo il testo di Stach si può dare una risposta.
A casa di Franz dunque la vita quotidiana era scandita e regolata dagli orari ed esigenze del negozio. Orari rigidi, regole severe, decoro che voleva essere borghese. Si parlava in tedesco, per gli ebrei la porta dell’integrazione e idioma della “cultura e progresso”. A Praga i germanofoni erano però una minoranza. La maggioranza della popolazione parlava il ceco. Verso la fine dell’Ottocento, poi l’Impero asburgico era diventato teatro di movimenti di stampo nazionalista. Uno di questi nelle terre boeme era rivolto contro la minoranza germanofona. Minoranza di cui si considerava parte la famiglia Kafka. Così gli ebrei Kafkarisultavano una minoranza della minoranza, doppiamente minoranza quindi.
Stach parla di proteste, scontri di piazza e distruzione dei negozi degli ebrei a Praga, nel 1897, da parte dei cechi. Quando si parla della presunta “stranezza” di Kafka, e che sarebbe “profetica” e “tragica” rispetto a ciò che sarebbe successo nel corso del Novecento, andrebbe preso in considerazione appunto il contesto. Kafka era un personaggio sospeso fra vari mondi.
Lui stesso, anche se aveva simpatie e frequentazioni sionistiche— dal grande amico Max Brod a Hugo Bergman diventato rettore dell’Università di Gerusalemme a Franz Werfel — paragonava la situazione degli ebrei integrati, ebrei senza rito né Sion, alla figura del Centauro (non a caso cara pure a Primo Levi): zampe posteriori nell’ebraismo, arti anteriori per aria alla ricerca di aggrapparsi al tedesco. E fra i suoi idiomi del cuore c’era lo yiddish dei nonni: era affascinato dal teatro popolare e dall’umorismo greve di quel teatro. Non era snob e amava ridere. E poi c’era un’altra lingue del cuore, il ceco dell’amata Milena Jesenska.
Le appartenenze plurime, sospese fra universi e tempi diversi, la sensazione di esser parte di qualcosa di periferico, sono la chiave di un immaginario, a pensarci bene, decisivo per la modernità occidentale del Novecento. Forse questo è il motivo per cui è nato il pur banalizzante aggettivo “kafkiano”. Comunque, si tratta di un immaginario che oggi è messo in questione. Ma questa è un’altra storia.
Nell’immagine: Franz Kafka (1883-1924) in un ritratto del 1906