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Di Paolo Mieli, Corriere della Sera

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Qualcosa è cambiato con il tentativo golpista fallito di Evgenij Prigozhin. Radicalmente. Il despota Putin esce dalla prova apparentemente indebolito. Ma, almeno fino ad adesso, il suo sistema ha retto. Certo quelle immagini dei cittadini e dei militari di Rostov che solidarizzano con i rivoltosi della Wagner, accogliendoli e salutandoli tra abbracci e applausi, resteranno impresse nella memoria. Così come la foto di Prigozhin in amichevole conversazione con il viceministro russo della Difesa, cioè il numero due di quello Shoigu di cui il ribelle chiede da settimane la rimozione. E anche quelle della mancata resistenza alle truppe catilinarie che hanno «marciato» per centinaia di chilometri in direzione di Mosca con il dichiarato intento di espugnare il Cremlino.
Fa davvero impressione il fatto che pochi giorni fa il Premio Nobel per la pace, Dmitrij Muratov, direttore di Novaja Gazeta, intervenendo al Global Media Forum di Bonn, sia stato in grado di prevedere quel che sarebbe accaduto. Pensava però, Muratov, che il colpo di Stato sarebbe avvenuto con l’instaurazione di un «nuovo tipo di giunta militare» ma «senza il rovesciamento del presidente in carica». Un colpo di Stato «senza cambio di potere». Vale a dire con il consenso di Putin. Invece quel consenso è mancato e l’iniziativa di Prigozhin è naufragata.
Sorprendentemente il mondo intero, anche la parte che si dichiara nemica di Putin, ha assistito quasi con sollievo alla composizione (momentanea?) della crisi. Poche ore sono bastate a far decidere che lo statu quo era preferibile al trionfo di un sanguinoso avventuriero. Nonostante quell’avventuriero avesse concesso agli avversari dell’autocrate il riconoscimento che le motivazioni dell’attacco di un anno e quattro mesi fa all’Ucraina (la Nato che si predisponeva ad una «folle aggressione» alla Russia) erano nient’altro che «pretesti fasulli», «inganni per l’opinione pubblica». Un’ammissione rilevante da parte non già di un sodale di Navalny ma dell’uomo che per nove mesi ha combattuto la battaglia di Bakhmut ed evidentemente si è fatto un’idea del perché lui stesso era lì in Ucraina a guerreggiare.

Ma nessun Paese della Nato, neanche i baltici e la Polonia, ha speso una parola a favore dell’iniziativa prigozhiniana. Tantomeno gli Stati Uniti, i quali hanno praticamente ammesso di essere stati a conoscenza da giorni delle intenzioni del ribelle. Nei fatti la Nato ha smentito la teoria che la dava per disponibile a qualsiasi avventura pur di liberarsi di Putin. E ha confermato che le armi a Zelensky sono state consegnate e a maggior ragione verranno date in futuro solo per consentire all’Ucraina di difendersi. Nient’altro. Putin ha cominciato questa guerra, sarà lui a dover fare marcia indietro per imboccare la via della pace.
Curiosamente anche in questa occasione l’uomo forte del Cremlino ha evocato il 1917 e ha ribadito implicitamente il proprio disprezzo per Lenin e di considerarsi erede dello zar Nicola II piuttosto che, almeno in parte, di Stalin. Quel cenno al ’17 contiene molte implicazioni. Nell’agosto di quell’anno (l’anno delle due rivoluzioni russe, quella di febbraio e quella di ottobre) il generale Kornilov tentò un colpo di Stato. Il momento era assai delicato dal momento che era in corso la Prima guerra mondiale in cui la Russia era schierata, nella Triplice intesa, al fianco di Francia e Inghilterra. Lavr Georgievic Kornilov, favorevole in primavera alla destituzione dello zar Nicola II, era stato nominato Comandante supremo delle forze armate. Chiedeva già ai primi di agosto leggi più dure, si allarmò quando i tedeschi occuparono Riga e, a quel punto, provò a conquistare tutto il potere al fine di riprendere energicamente la guerra contro la Germania. Il capo del governo Kerenskij decise a quel punto di destituirlo e per riuscire nell’intento fu costretto ad aprire ai bolscevichi di Lenin. Kornilov si rifugiò nella regione del Don dove diede vita alla prima Armata Bianca controrivoluzionaria. Trascorsero poche settimane e Lenin seppe approfittare di quel momento di destabilizzazione per disfarsi di Kerenskij (la «rivoluzione di ottobre»); il 3 marzo 1918 la Russia di Lenin firmò con gli Imperi centrali il trattato di Brest-Litovsk, e il 13 aprile riuscì a far uccidere Kornilov.

Francia, Inghilterra avevano appoggiato Kornilov e questo, nei fatti, indebolì il capo delle forze armate agli occhi dei suoi connazionali. I quali in gran parte volevano farla finita con una guerra ormai — checché ne dica adesso Putin — irrimediabilmente persa (quantomeno per quel che riguardava la Russia). Ma soprattutto ritennero di aver individuato in Kornilov un «agente al servizio di interessi stranieri». E — eccezion fatta per una parte della destra più reazionaria — non lo sostennero. L’orgoglio nazionalista prevalse su ogni altra considerazione e avvantaggiò i bolscevichi.

Stavolta gli occidentali non hanno ripetuto l’errore. Nonostante alcuni liberali russi avessero inneggiato a Prigozhin fin dal mattino di sabato («uno degli spettacoli più imbarazzanti di una giornata surreale», ha scritto sulla Stampa Anna Zafesova, pur simpatizzando per i dissidenti), gli alleati di Zelenskij non hanno pronunciato una sola parola che tradisse simpatia per la marcia wagneriana su Mosca. Lo stesso esercito ucraino ha deciso di non impegnarsi in imprese militari che profittassero del disorientamento prodottosi tra le truppe nemiche. Si sono addirittura diffuse notizie — non smentite — su contatti tra i servizi segreti occidentali (preavvertiti dell’«intentona») e quelli russi: il tutto finalizzato ad evitare che la Russia precipitasse nel caos. Il giorno forse non lontano in cui si raggiungerà un’intesa di pace saremo costretti a scoprire che la pietra fondamentale per quell’accordo è stata posta sabato 24 giugno 2023.

Nell’immagine: Putin con l’ex cuoco Prigozhin






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