Le tre opzioni di Khamenei
Come reagirà l’Iran dopo i duri colpi subiti dai suoi maggiori alleati, Hamas e Hezbollah, e che effetti avrà sull'evoluzione del conflitto in Medio Oriente?
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Teheran ha di fronte a sé tre opzioni: ignorare gli smacchi subiti e rilanciare la strategia del “cerchio di fuoco” al fine di strangolare Israele con i gruppi terroristici e paramilitari creati attorno ai suoi confini; cercare di creare un equilibrio di forza fra nemici con lo Stato ebraico per guadagnare il tempo necessario a sanare le ferite subite e riuscire ad arrivare all’arma nucleare; fare un passo indietro tattico e concordare con l’importante alleato russo una diversa strategia di medio termine in Medio Oriente per indebolire gli Usa ed i loro alleati, Israele e Paesi sunniti.
Sulla carta, i messaggi arrivati da Teheran nelle ultime 36 ore lasciano intendere che gli ayatollah vogliano continuare l’assedio militare a Israele da sette direzioni: da Gaza e West Bank con Hamas e Jihad Islamica, da Libano e Siria con Hezbollah, dall’Iraq con Kataib Hezbollah, dallo Yemen con gli Houthi e dallo stesso Iran con missili e droni. Se il ministero degli Esteri di Teheran promette che “altri si alzeranno per sostituire Sinwar”, il presidente Masoud Pezeshkian assicura che “il martirio dei comandanti non indebolisce la resistenza” e gli Hezbollah annunciano “un’escalation di attacchi contro l’Entità sionista” è perché il regime degli ayatollah vuole far sapere ai seguaci che l’obiettivo della distruzione di Israele resta intatto e la scelta di perseguirlo con l’assedio militare continuerà senza esitazioni. È una posizione ideologica che l’ayatollah Ali Khamenei ha incarnato recitando il sermone di Teheran con una mano sul fucile ed a cui si lega il progetto di estendere la propria egemonia sull’intero Medio Oriente opponendosi al processo degli Accordi di Abramo, fra Israele e Paesi sunniti, sostenuto da Usa e Ue. Ma è una scelta che espone gli ayatollah ad evidenti rischi: dalla difficoltà di riorganizzare e risollevare in fretta Hamas e Hezbollah alla minaccia di un imminente attacco israeliano — in risposta al lancio di missili iraniani del 1 ottobre — che si propone apertamente di indebolire il regime.
Da qui lo scenario della seconda opzione, di cui si discute fra gli alleati occidentali, con Teheran che sceglierebbe di rafforzare il sostegno a Houti in Yemen e Kataib Hezbollah in Iraq, fornendogli rispettivamente missili russi e droni più sofisticati, al fine di continuare la guerra per procura contro lo Stato ebraico ma con un chiaro passo indietro rispetto a Hezbollah e Hamas. In questo schema in Libano del Sud e a Gaza si potrebbero creare delle zone cuscinetto ai confini di Israele, generando una situazione di precaria stabilità, mentre la guerra continuerebbe con lanci di droni e missili da Iraq, Yemen e Iran. Consentendo a Teheran di avere un equilibrio di forza con Gerusalemme tale da consentirle di guadagnare il tempo necessario per raggiungere l’arma atomica, proteggendosi così anche dal rischio di attacchi futuri. Anche da parte degli Stati Uniti.
C’è però la terza opzione e ha a che fare con Mosca. Il Cremlino è infatti il più importante protettore ed alleato di Teheran. È Putin che acquista droni iraniani per combattere in Ucraina, fornisce tecnologia balistica a Teheran, sostiene il suo programma nucleare e, soprattutto, come lui stesso ha detto al presidente Pezeshkian nel recente incontro in Turkmenistan vuole “creare un nuovo ordine internazionale” al posto di quello uscito dalla fine della Guerra Fredda. Il patto Putin-Pezeshkian su questo “nuovo ordine” si basa sulla somma fra guerre d’attrito su più fronti contro l’Occidente — in Europa, Africa e Medio Oriente — ed al contempo la costruzione di accordi multilaterali fra Brics, Organizzazione di cooperazione di Shangai ed Unione Euroasiatica. È un processo di medio termine, nel quale Putin vuole associare la Cina di Xi Jinping. Dunque, Mosca ha interesse a consolidare la pedina di Teheran, non a vederla barcollare sotto il peso degli smacchi subiti da Hamas e Hezbollah o, peggio, di un attacco militare israeliano appoggiato dagli Stati Uniti. Se Putin ha sostenuto Hamas dopo il 7 ottobre è perché voleva arruolare i jihadisti nella sfida globale alle democrazie, al fine di obbligare la Casa Bianca a dividere il proprio arsenale fra Ucraina ed Israele, ma la morte di Sinwar può spingere Putin a cambiare registro, preferendo consolidare il patto strategico con Teheran, in un’ottica meno militare e più politica di sfida agli Usa. Tantopiù che, anche lui, sta aspettando di conoscere il nome del prossimo inquilino della Casa Bianca e sa che, se dovesse essere Donald Trump, si aprirà una delicata fase di trattativa a tutto campo: dal corso del Dnepr fino alle spiagge di Gaza.
Ecco perché tutti gli occhi sono puntati su Teheran e sulla scelta che farà Ali Khamenei, da cui dipendono i Guardiani della rivoluzione che armano, addestrano e finanziano i gruppi jihadisti in Medio Oriente. Ed è una scelta che incombe perché il conto alla rovescia per l’attacco di Israele è già iniziato.
Nell’immagine: il presidente iraniano Ali Khamenei
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