Non più e soltanto un fiume carsico, limaccioso ma sotterraneo. No, stavolta le nere ondate dei sovranismi europei sono state alte, molto alte, fin quasi a spezzare la diga della maggioranza europeista al parlamento di Strasburgo. Se non l’ha travolta nei numeri, l’ha comunque duramente colpita al cuore. Perché le vittime dell’avanzata nazional-populista sono innanzitutto proprio Francia e Germania, il binomio indispensabile, il tandem di testa, le locomotive, nel bene e nel meno bene, dell’ancor più fragile progetto comunitario, o di quel che ne rimane.
A Berlino, un’ «Alternative für Deutschland», con dichiarate venature neo-naziste che sembrava penalizzata dal ‘vade retro’ di lepenisti e salviniani, che l’hanno espulsa dalla casa comune ‘identitaria’, ne ha tratto invece giovamento, e quasi con un moto di ribellione verso gli infedeli/opportunisti “camerati” latini, si inerpica al secondo posto della classifica elettorale tedesca. Ne esce un cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz, declassato in terza posizione, fragilizzato, alla testa di una governativa ‘coalizione semaforo’ (con Verdi e Libarali) che in cifre non avrebbe teoricamente più la maggioranza parlamentare, schiacciata sia dalla destra estrema sempre più forte nei Länder ex sovietizzati, sia dalla CDU, il cui buon risultato traina il Partito Popolare Europeo, confermandone il primato continentale: unico dato stabile nel frammentato dato di questo voto nei 27 paesi UE. Sempre che, come da più parti si teme, i ‘democristiani’ del vecchio continente non si lascino ingolosire e fagocitare dalle ambizioni e dalla ricerca di alleati della destra vincente. Dunque sabbie, ancora, pericolosamente mobili.
Addirittura peggio a Parigi. Trionfo della coppia Marine le Pen-Jordan Bardella, volto nuovo e ‘pulito’, capolista del Rassemblement National (RN), che già volava nei sondaggi ed è volato nelle urne, doppiando sia lo schieramento del capo dello Stato sia quello di un ritrovato (parzialmente) socialismo francese sotto la guida dell’iper-europeista e anti-putiniano Rafael Gluksmann. Quindi, un presidente Emmannuel Macron stordito, umiliato, che tenta di rovesciare il tavolo con una mossa più che azzardata: lo scioglimento dell’Assemblea, e nuove elezioni da portare a termine in meno di un mese. Col rischio di una replica elettorale del RN, che costringerebbe l’inquilino dell’Eliseo a una coabitazione “fra acqua e fuoco” (primo ministro Bardella? Addirittura la le Pen?), difficilmente immaginabile, fonte di una probabile, continua e micidiale instabilità. Se la scommessa non è solo frutto di un gesto rabbioso, i calcoli politici di Macron possono essere due: la speranza che (in una manciata di giorni?) si ricompatti la “disciplina repubblicana” (dai macroniani, ai socialisti, ai postgollisti, ai verdi, agli insoumises, tutti contro il Rassemblement National); oppure la cooptazione forzata del coinquilino dell’estrema destra, nel tentativo di logorarlo il più possibile nei prossimi due anni, il biennio che manca alla nuova competizione presidenziale. Autentica mano di poker, insomma. In cui l’abilità manovriera del leader che aveva sbriciolato col suo arrivo al vertice della Quinta Repubblica i partiti tradizionali (post-gollisti, post-mitterrandiani), potrebbe rivelarsi un petardo bagnato, spalancando invece le porte del Palazzo alla figlia o agli eredi ‘rinnovati’ (ma non troppo) di Jean-Marie le Pen, quello per il quale ‘le camere a gas furono solo un dettaglio della Storia’.
Visti i trascorsi legami, il sincero trasporto filo-russo del passato recente, e i finanziamenti ricevuti da Mosca, “Bleu Marine’ (solo di recente, e solo per ulteriore maquillage, ‘madame’ ha parlato di eroica resistenza ucraina), già si dice che domenica (contro Zelensky) ha vinto anche Vladimir Putin, insieme all’alleato cinese Xi Jinping, in lotta continua e nemmeno troppo sottotraccia contro “l’Europa guerrafondaia” e bolsa, sottomessa alleata degli Stati Uniti. Da capire se sia vero o meno vero di quanto sembri. Se a Mosca e a Pechino ci si compiace di quanto capitato in Francia e Germania, non possono sfuggire nelle stanze del Cremlino e nella asiatica ‘Città proibita’, l’esito assai meno favorevole in paesi culla del neo-sovranismo est-europeo, dalla Polonia all’Ungheria all’Olanda con la conferma di Donald Tusk, il ridimensionamento brusco di Viktor Orban, la tenuta dei rosso-verdi. Per non dire dell’Italia, dove “l’under-dog” Giorgia Meloni (filo atlantista) ha fatto addirittura meglio che alle politiche di due anni fa, mentre il leghista Salvini (quello del “mi sento a casa mia più a Mosca che a Bruxelles” e ha messo in campo il salvatore della patria e suo personale, generale Vannacci) si ritrova alle spalle dei moderati di “Forza Italia” di Tajani, il partito che per sopravvivere deve continuare a mettere il nome di un defunto (Berlusconi) sul proprio simbolo.
Tre conclusioni, provvisorie. Primo: visti i numeri, in Europa i nazional-populisti non dovrebbero riuscire a formare un gruppo unico (considerate anche le loro marcate differenze su singoli punti), né tantomeno a organizzare una maggioranza: possono invece influenzare la scelta del nuovo presidente della Commissione, qualora contro la Von der Leyen (candidata PPE), poco amata e apprezzata anche dai suoi, sospettata di tentata ‘intesa’ con nemici sovranisti (Meloni in primis), dovessero partire i colpi di troppi “franchi tiratori”. Secondo: i socialisti europei escono parzialmente sconfitti senza tuttavia cadere nel baratro, grazie alla tenuta del PSOE spagnolo dell’immancabile Sanchez e alla bella sorpresa Elly Schlein, che ha ridotto a soli quattro punti percentuali la distanza da “Fratelli-e-Sorelle d’Italia” (le sarà più facile contrastare i cacicchi interni al PD, ma è tutta un’incognita la reazione all’ennesima stangata dell’avvocato del popolo Giuseppe Conte, il pentastellato refrattario all’alleanza del “campo largo” e tentato semmai da un solitario populismo di sinistra); i Verdi potrebbero entrare nella maggioranza europeista (finora ‘maggioranza Ursula’) per garantirne più forza e sostanza, anche se il tragitto UE verso la transizione green non è stato un esempio di linearità e convinzione, ma una conversione a U, sottoposto com’era alle proteste dei contadini iper-sussiaditi, degli automobilisti senza i soldi necessari per passare alle elettriche, e a quelli, la gran parte, per cui l’Europa è soltanto quella che misura i cetrioli o obbliga a fissare il tappo alle bottiglie di plastica affinchè non si disperdano inquinando il territorio.
Soprattutto, terza conclusione. Nulla assicura che gli europeisti maggioritari a Bruxelles non recitino una replica di quanto già visto. Scampato il pericolo, gabbato lo santo. Potrebbero cioè dare sempre per scontato che il progetto europeo possa comunque sopravvivere alle sue eterne paure (di unità politica e di maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti), ai suoi eterni egoismi nazionali (è bene solo ciò che porta vantaggi immediati in casa mia), al suo declino tecnologico-industriale (forte ritardo rispetto al comparto americano), e alla sua irrilevanza internazionale di fronte ai colossi (soprattutto Usa e Cina) in pericolosa competizione. Non ci vorrà molto per capire se invece hanno fatto tesoro della dura lezione del 9 giugno.
Nell’immagine: la composizione del nuovo Parlamento Europeo