Perché nel dopo Urss non è emerso un partito socialista russo?
un interrogativo che accompagna trentacinque anni di post-comunismo nel Paese della rivoluzione dei soviet
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un interrogativo che accompagna trentacinque anni di post-comunismo nel Paese della rivoluzione dei soviet
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un interrogativo che accompagna trentacinque anni di post-comunismo nel Paese della rivoluzione dei soviet
Perché in Russia non è sorto un partito socialista e genuinamente di sinistra?
A partire dalla seconda metà del XIX secolo, la Russia zarista fu il laboratorio di un grande movimento plurale di emancipazione sociale. Inizialmente con i giovani illuministi, che con la loro “andata al popolo” (da qui la denominazione di “populisti”) cercarono di mobilitare i contadini poveri della Russia e dell’Ucraina. Vennero sconfitti, e le conseguenze furono la declinazione (e degenerazione) in chiave terroristica del movimento.
Tuttavia già dagli anni ’80 di quel secolo iniziò a formarsi, in tutto l’impero, un multiforme movimento operaio che puntava non solo al miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro, ma si forgiava anche sulla formazione culturale degli stessi. Fu attraverso le cosiddette “scuole domenicali” che, in seguito, personaggi importanti del movimento socialdemocratico come Martov, Lenin. Krupskaja, Zasulich e Plechanov condussero la loro battaglia per trasformare quell’afflato in vero e proprio movimento politico.
La socialdemocrazia russa nascente, però, dovette scontrarsi con tendenze rivoluzionarie, che negavano l’esigenza della lotta politica, in particolare di quella legale. Non si trattava solo della maggioranza dei populisti e dei sostenitori di Bakunin, ma anche di personaggi come Pëtr Tkachev. Questo nome può non dir niente ai contemporanei ma, a suo tempo, fu molto popolare in Russia. Tkachev teorizzava la necessità di non seguire il tradizionale percorso del movimento operaio di crescita “dentro lo Stato borghese” ma di legare le frequenti spontanee insorgenze contadine a una minoranza intellettuale, dalla cui unità d’intenti si sarebbe sviluppata una società comunista.
Inoltre la lotta politica del movimento socialista si scontrava con due elementi peculiari della società russa: l’esistenza di un’autocrazia non disponibile a lasciare il passo alla borghesia nazionale e l’incapacità di quest’ultima ad avere un progetto di sviluppo capitalistico autonomo dallo Stato. Questi aspetti sono stati trattati da una vasta letteratura anche recentemente, basti pensare ai capitoli iniziali dell’ottimo libro di Ettore Cinnella (1905 la vera rivoluzione russa, Db Pubblisihing, 2019). A fronte di ciò si svilupparono tre diverse ipotesi all’interno del movimento marxista. Quella dei menscevichi di Martov, che riteneva impossibile una rivoluzione democratica senza un ruolo preminente del “Partito dei Cadetti”, ovvero del partito liberale russo. La strategia bolscevica invece prevedeva un ruolo più attivo del proletariato e dei contadini nella rivoluzione democratica, se non addirittura un ruolo egemone. L’idea di Trotsky, infine, era quella di una “rivoluzione permanente”: con essa il proletariato avrebbe realizzato sia i compiti della rivoluzione democratica che i primi passi di quella socialista, in attesa dello sviluppo della rivoluzione in Occidente.
Quest’ultima ipotesi sembrò trovare una verifica negli avvenimenti che si produssero tra il febbraio e l’ottobre del 1917 (vedi Lev Trotskij, Storia della Rivoluzione Russa, Sugarco, 1987) ma anche qui la storia di dimostrò più complessa di qualsiasi teoria.
Invece di forti sindacati come in Europa Occidentale, in Russia si svilupparono i Soviet (consigli) che prima della rivoluzione assunsero forme di strutture di “dualismo di poteri”, per poi diventare organi di amministrazione gestionale delle imprese, e infine appendici inerti del partito unico al potere.
Così i lavoratori che in URSS si trovarono costituzionalmente al potere non solo ne furono espropriati dalla burocrazia dominante, ma non ebbero a propria disposizione, come in Occidente, dei sindacati rivendicativi, per difendere i propri interessi. Su questi aspetti diversi contributi di Rita di Leo, negli anni ’70, furono utili a comprendere il rapporto tra operai e Stato in URSS.
I lavoratori salariati vissero una lunga stagione di passività sociale, basata su un compromesso con la élite dominante. Le leve del comando vennero lasciate in mano alla burocrazia in cambio di una bassa produttività del lavoro. Solo raramente nel periodo krusceviano si assistette a delle rivolte, come nel caso di Novocherkassk nel 1962, quando una rivolta contro il caro-prezzi sfociò in un massacro, in cui la polizia uccise 26 dimostranti (per una ricostruzione dettagliata e stimolante del periodo post-staliniano si veda Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica, 1945-1991, Il Mulino, 2011)
Al momento del crollo dell’URSS (1985-1991) i settori più attivi della società che auspicavano il passaggio a un socialismo democratico si dimostrarono quelli dell’intellighenzia urbana: la classe operaia industriale, ancora molto concentrata in grandi bacini industriali, restò invece passiva spettatrice dei mutamenti in corso, o si mise sulla strada di costruzione di movimenti rivendicativi che finirono però a rimorchio delle diverse frazioni della vecchia “nomenklatura” che aspiravano a gestire il passaggio al libero mercato.
Come ho avuto modo di sintetizzare nel mio libro dedicato alla “Perestrojka”, le cose però non si dimostrarono né semplici né lineari: “la maggioranza di loro si trasformò in sostenitori dell’economia di mercato, e si dichiararono favorevoli a radicali forme di decentramento del potere politico, compresa la completa autonomizzazione economica e fiscale della Repubblica russa dall’Unione Sovietica, uno degli obiettivi principali di Eltsin” (Yurii Colombo, Un’ambigua utopia, Massari, 2021)”.
Gli anni ’90 furono caratterizzati dalla deindustrializzazione di buona parte del paese, che condussero sempre a una maggiore atomizzazione sociale e sfiducia in larghi settori della società sulla possibilità dell’azione politica come motore del cambiamento. La nostalgia per il ‘welfare state’ sovietico divenne nostalgia per il periodo sovietico tout-court, di cui si dimenticarono presto i difetti e le inefficienze. Ciò favorì il comunista Zjuganov, che per un decennio mantenne il suo partito sopra l’asticella del 20%, prima di iniziare un lento ma inesorabile declino, oscurato sempre più dal pragmatismo bonapartista putiniano.
Fu in questo drammatico quadro che si svilupparono i tentativi di costruire un partito socialista in Russia, che potesse essere un’alternativa ai comunisti.
Il Partito Socialdemocratico di Russia, tra i cui principali dirigenti c’era Mikhail Gorbaciov, fondato nel 2001 e frutto della coalizione di diversi partiti socialdemocratici, non superò mai i 12.000 iscritti e in pochi anni divenne un’appendice di “Russia Giusta”, un partito che era stato persino accolto nell’Internazionalista Socialista prima di esserne espulso perché favorevole alla pena di morte e poi all’invasione dell’Ucraina.
Così mentre le socialdemocrazie europee hanno conosciuto un declino, ma non un’eclisse, negli ultimi decenni nella Federazione Russa continuano ad esistere solo piccole formazioni di sinistra non staliniste, come il Movimento Socialista Russo di ispirazione trotskista, che è stato recentemente accusato dal governo russo di essere “agente straniero”.
Cosi, dopo la rivoluzione, in Russia e negli altri Paesi dell’ex URSS, il movimento socialista più articolato d’Europa, schiacciato tra utopia e realismo statalista, ha di fatto da tempo cessato di esistere. E non se ne prevede la rinascita in tempi brevi.
Nell’immagine: il simbolo e il sito del Movimento socialista russo oggi. La scritta in russo dice: “QUESTO MATERIALE È PRODOTTO E/O DISTRIBUITO DALL’AGENTE ESTERO “MOVIMENTO SOCIALISTA RUSSO” (RSM), O RIGUARDA LE ATTIVITÀ DELL’AGENTE ESTERO “MOVIMENTO SOCIALISTA RUSSO” (RSM) 18+ – In connessione con la decisione del Ministero della Giustizia di considerare il Movimento Socialista Russo come “agente straniero”, siamo costretti ad annunciare la cessazione delle attività dell’organizzazione e l’autoscioglimento. Percepiamo quanto accaduto come un’alta valutazione delle nostre attività. Ti consigliamo di fare attenzione e di seguire le notizie.”
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