Putin, patto olimpico Xi-Macron
La visita fa leva sul governo più europeista e punta a incoraggiare l’autonomia dei 27 da Washington. Sullo sfondo resta la guerra commerciale sull’auto elettrica, Bruxelles teme ritorsioni sui microchip
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Partiamo dalle contraddizioni. Da un lato, Xi visterà Ungheria e Serbia, e dall’altro si è recato ieri in Francia, dove ha incontrato all’Eliseo il presidente francese Emmanuel Macron e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. In un caso, il capo della Repubblica popolare sembra voler giocare ad un cinico divide et impera, enfatizzando il ruolo dei leader euroscettici e simpatizzanti con Mosca, come lo sono certamente il primo ministro ungherese Viktor Orbán, e in una certa misura anche il presidente serbo Alexander Vučić, il cui Paese è comunque candidato ad entrare nell’Unione europea. Nel secondo caso, Xi ha puntato su uno dei leader più eurofili dell’Ue, che, avendo abbandonato ogni illusione di un negoziato con Vladimir Putin, dimostra anche maggiore chiarezza strategica sulla guerra in Ucraina e le relazioni Europa-Russia.
Nel caso di Belgrado e soprattutto Budapest, non sono previsti scossoni. Le relazioni commerciali tra Cina da una parte e Serbia e Ungheria dall’altra vanno a gonfie vele. In particolare, gli investimenti cinesi nei due Paesi sono in ascesa. Xi ha senza dubbio puntato su queste due tappe anche per sventolare la carota davanti agli occhi degli altri Paesi europei, ossia mettere in bella mostra i vantaggi economici derivanti dai buoni rapporti politici (leggi: di sudditanza) nei confronti di Pechino. Soprattutto l’Ungheria, infatti, da anni non lesina minacce di veto nel Consiglio Ue per scongiurare posizioni europee marcatamente critiche nei confronti di Pechino, ad esempio riguardo alle violazioni del diritto internazionale nel Mar cinese meridionale. Nel caso della Serbia, invece, non è certo casuale la coincidenza della data della visita di Xi con il venticinquesimo anniversario del bombardamento (accidentale) della Nato dell’ambasciata cinese a Belgrado durante la guerra in Kosovo.
Il sottinteso euroscettico e antioccidentale delle visite del presidente cinese a Budapest e Belgrado non è passato inosservato, e ha condito di tensione gli incontri di Parigi. Ma non è stato l’unico motivo. A dare maggiore concretezza ai problemi tra Francia e Commissione europea, da un lato, e Cina dall’altro sono proprio le relazioni economiche. Bruxelles rileva un deficit commerciale con la Cina di quasi 300 miliardi di euro nel 2023, attribuito alle restrizioni di accesso al mercato cinese per i prodotti europei (ad esempio per i dispositivi medici) e al “dumping” ad opera di Pechino, che esporta auto elettriche e pannelli fotovoltaici a basso costo. La Commissione, intenta a contrastare le politiche commerciali sleali cinesi e a sostanziare la strategia del “de-risking”, ha aperto un’indagine sulle auto elettriche e le tecnologie verdi cinesi in Europa. Di conseguenza, già questo mese potremmo vedere i primi dazi Ue sulle auto elettriche del gigante asiatico, che farebbero da apripista a tariffe permanenti entro novembre, che potrebbero arrivare fino al 30%.
Alimentando quella che potrebbe sfociare in una guerra commerciale Europa-Cina, Pechino minaccia di rispondere per le rime, ad esempio limitando le esportazioni di materiali e componenti necessari nella produzione di microchip, e infliggendo dazi sulle esportazioni europee in settori come i cosmetici ed il cognac, non a caso tra le principali importazioni dalla Francia.
In generale, l’Ue teme che la Cina miri ad imporre dazi soprattutto sul settore agroalimentare, che come reso evidente dalle proteste degli agricoltori contro le politiche climatiche Ue, rappresenta ancora una potentissima lobby capace di mettere in ginocchio le istituzioni europee. Ben inteso, Xi non è andato a Parigi sul piede di guerra. La Cina, la cui ripresa economica rimane assai fragile, punta molto sull’Europa. Ma per farlo, tenta un machiavellico equilibrismo tra la carota e il bastone.
E qui il nodo dell’apparente contraddizione della visita di Xi si scioglie. Se è vero che Macron e Orbán sono agli antipodi dello scenario politico europeo, è altrettanto vero che Xi vede nel francese il leader che, in virtù della chiarezza strategica che pochi suoi omologhi in Europa oggi hanno, è più incline a tracciare una via autonoma rispetto a Washington. Già nel suo primo discorso alla Sorbona, nel 2017, Macron aveva delineato i contorni di un’autonomia strategica europea, visione che ha sostanziato ulteriormente nel suo secondo discorso all’ateneo parigino, il 25 aprile scorso. È una visione che era stata temporaneamente accantonata, dopo l’elezione di Joe Biden nel 2020 negli Stati Uniti e l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, e il conseguente rafforzamento della Nato e delle relazioni transatlantiche. Oggi, invece, avvicinandosi lo spettro di una possibile rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, è stata rispolverata con maggior vigore rispetto a sette anni fa. È su questo desiderio di autonomia strategica europea che Xi vuole far leva, per seminare zizzania tra Europa e Stati Uniti.
Ma è una leva che si scontra con la reale causa di una possibile divergenza transatlantica. Se oggi si parla di nuovo di autonomia strategica europea, non è perché in Europa si voglia fare a meno degli Stati Uniti, ma perché potrebbe essere Washington, sotto guida Trump, a decidere di fare a meno di noi, abbandonando non solo l’Ucraina ma l’intera difesa del Continente. In questo scenario da incubo, ben chiaro a Macron, la responsabilità militare, e persino nucleare, della sicurezza del nostro continente, ricadrebbe interamente sugli europei. Oggi quella sicurezza è minacciata esistenzialmente dalla Russia, sostenuta com’è noto proprio dalla Cina. In sintesi, quanto più l’autonomia strategica diventerà per gli europei non una libera scelta ma una necessità esistenziale dettata dal disimpegno americano ed un Continente europeo in guerra, tanto più le relazioni Europa-Cina diventeranno tese alla luce della convergenza strategica tra Pechino e Mosca.
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