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Di Gwynne Dyer, Internazionale

Come dopo ogni vertice sul clima, l’aria è piena di grida di rabbia e disperazione. Quanto è stato concordato è poco chiaro e insufficiente, e quanto non è stato deciso o è stato semplicemente ignorato è invece sterminato e terrificante. Per esempio, non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo sul fatto che il mondo debba smettere di bruciare combustibili fossili.

Ma come? Non è questo l’obiettivo di questo grande baraccone? Il clima si sta surriscaldando perché bruciamo combustibili fossili per produrre energia, presto le persone moriranno a grappoli, tra venti o trent’anni interi paesi diventeranno inabitabili, è il momento di dire basta! Sono disponibili fonti energetiche alternative! Agite ora, o si verificherà un disastro globale!

Sì, è di questo che si tratta, e ogni anno decine di migliaia di politici, esperti, attivisti e lobbisti si recano in una località diversa – l’anno scorso Glasgow, Sharm el Sheikh quest’anno, gli Emirati Arabi Uniti l’anno prossimo – per discutere e decidere come affrontare un rischio che minaccia letteralmente la nostra esistenza.

Parole tabù

E in tutti questi 27 anni non sono mai riusciti a menzionare il nome della minaccia? No, non ci sono riusciti. Nel 2021, per la prima volta, hanno inserito la parola “carbone” nel rapporto finale – “lo ridurremo gradualmente” (e non “lo elimineremo”), hanno detto. Ma le parole “gas” e “petrolio” sono rimaste tabù.

Questo è ciò che si ottiene quando un’istituzione globale è governata dal consenso. Tutti hanno diritto di veto, compresi i paesi che dipendono dal carbone, dal gas e dal petrolio, e gli interessi a breve termine di alcuni (denaro e rapida crescita economica alimentata da combustibili fossili) si scontrano con l’interesse a lungo termine della collettività, ovvero non subire un’enorme moria di popolazione e un collasso della nostra civiltà.

Ebbene. Questo è il prezzo da pagare per appartenere a una specie che sta ancora emergendo da un lungo passato tribale e che ha sviluppato una civiltà ad alta tecnologia e ad alta energia prima ancora di essere culturalmente attrezzata per gestirla. Si fa del proprio meglio e si spera che basti.

Ma finiamola con le riflessioni filosofiche. Cosa è successo realmente a Sharm el Sheikh? Dopo le inevitabili trattative notturne (due notti in bianco, a dire il vero), i presenti sono riusciti a concordare la creazione di un nuovo fondo che compensi i paesi poveri di “perdite e danni” subiti a causa di eventi climatici estremi. Il denaro proverrà dai paesi sviluppati le cui emissioni passate e attuali sono all’origine dei danni provocati.

Le catastrofiche inondazioni del Pakistan sono diventate il manifesto di quest’anno. Il primo ministro pachistano Shehbaz Sharif ha dichiarato alla conferenza: “Nonostante nel sud sia stata registrata una media di piogge estreme sette volte superiore alle precedenti, siamo andati avanti mentre torrenti impetuosi cancellavano ottomila chilometri di strade [asfaltate], danneggiavano più di tremila chilometri di binari ferroviari e spazzavano via colture su un’area di sedicimila chilometri quadrati”.

“Siamo diventati vittime di qualcosa con cui non avevamo nulla a che fare, e naturalmente si è trattato di un disastro causato dall’uomo… Come si può pensare che intraprenderemo questo gigantesco compito da soli?”.

“Perdite e danni non è una questione di carità, ma di giustizia climatica”, ha detto l’inviato del Pakistan per il clima Nabeel Munir, e questa volta il messaggio è stato recepito. È un fatto normale: se ogni anno, per più di una decina d’anni, viene denunciata la stessa palese ingiustizia ai vertici sul clima, alla fine chi ha fatto il danno e dovrebbe pagarne il prezzo ammetterà che il caso è fondato.

Cos’è un paese povero?

Dovrebbero bastare altri due o tre anni per istituire la nuova agenzia per “perdite e danni” e concordare le regole per stabilire chi versa ogni anno e quanto, e cosa esattamente è considerato un danno climatico risarcibile.

La principale domanda senza risposta è: che ne sarà della Cina? Il paese è ancora considerato in via di sviluppo e quindi automaticamente una vittima, ma in realtà è a medio reddito e quello che emette più anidride carbonica al mondo. È più esteso di tutti gli altri paesi sviluppati insieme e quasi il triplo degli Stati Uniti.

Dovrebbe forse versare denaro al fondo “perdite e danni” invece di chiedere di essere tra i beneficiari? E l’India? Attualmente è solo terza per emissioni totali, dopo gli Stati Uniti, ma probabilmente li supererà nei prossimi dieci anni.

E così la lotta titanica su chi dovrà pagare per le perdite e i danni climatici inflitti ai paesi più poveri continuerà, ma perlomeno il prossimo vertice sul clima potrà concentrarsi su altre cose. È giusto che sia così, perché l’ambizioso obiettivo di limitare l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi è ormai probabilmente una causa persa.

L’obiettivo “da non superare mai” è quello di rimanere entro un aumento di due gradi, oltre il quale la situazione finirebbe fuori controllo. L’aumento di calore che abbiamo già provocato innescherebbe delle “retroazioni” di riscaldamento che non potremmo annullare, e da lì si andrebbe verso un futuro da incubo.

È quindi positivo vedere che ogni anno i vertici sul clima diventano un po’ più ragionevoli. La strada da percorrere è ancora molto lunga, ma almeno stiamo andando nella direzione giusta.

Traduzione di Federico Ferrone
Nell’immagine: le alluvioni del 2022 in Pakistan






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