Riconoscere la Palestina
Perché farlo per “uno Stato che non c’è” e in piena guerra di Gaza; e perché la Svizzera, sbagliando, non ne vuole sapere
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Perché farlo per “uno Stato che non c’è” e in piena guerra di Gaza; e perché la Svizzera, sbagliando, non ne vuole sapere
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Perché farlo per “uno Stato che non c’è” e in piena guerra di Gaza; e perché la Svizzera, sbagliando, non ne vuole sapere
Da un punto di vista del diritto internazionale, la decisione del terzetto europeo, e dei paesi che li hanno proceduti (in Europa tra gli altri anche la Svezia), si situa in una nebulosa in cui è arduo muoversi con disinvoltura e certezze. L’unico riferimento possibile sulla materia è la “Convenzione di Montevideo”: che ha però il “piccolo difetto” di essere stata varata nel lontano 1933, prima della seconda guerra mondiale, al tempo della Società delle Nazioni. Convenzione che, senza troppo approfondire, fornisce unicamente i tre criteri che determinerebbero una realtà statuale: un popolo, un potere governativo, una sovranità affermata.
Quindi, nel caso specifico della Palestina, soltanto uno degli elementi dettati dalla Convenzione ha pienamente senso, quella relativa al “popolo”: largamente contestata nella società israeliana (che vede i palestinesi come semplice appendice della comunità araba), e tuttavia accettato come realtà dagli accordi di Oslo (intesa Rabin-Arafat) che sancivano da parte del governo di Tel Aviv il riconoscimento dell’OLP come “legittimo rappresentante del popolo palestinese”. Per gli altri due pre-requisiti si è tragicamente in un vacuum: difficile considerare un “governo” affermato quello dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), che soggiace alla volontà e alla forza militare israeliane, che ha limitatissimi o inesistenti poteri giudiziari (la legge viene amministrata dalla magistratura militare israeliana), che è costretta a sopportare le aggressioni dei coloni ebrei più radicali spesso protetti dall’esercito israeliano; impossibile poi anche parlare di “sovranità”, perché in Cisgiordania anche le aree formalmente sotto amministrazione dell’ANP sono separate una dall’altra e comunque libero terreno di intervento da parte delle forze armate israeliane.
Tutto questo se si rimane a una interpretazione letterale e rigida della Carta di Montevideo. Ma dopo quasi un secolo, tutto è cambiato. E quelle prime regole, già di per sé molto superficiali, risultano ampiamente superate. Inevitabilmente adeguatesi sotto la forza di eventi e trasformazioni epocali. Anche nell’interpretazione di concetto di entità statale. Soprattutto, come nel caso della Palestina, quando il diritto riconosciuto internazionalmente è in pratica sopraffatto da una situazione imposta con la forza. Come ci si deve infatti comportare quando una parte, in questo caso il governo di Israele, ritiene di poter imporre con la forza la negazione della soluzione dei due Stati, com’è evidente ed esplicitamente teorizzato dal non rispetto della principale risoluzione ONU, la 242, che dopo le conquiste territoriali israeliane (Golan, Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est) chiedeva il rientro dell’esercito israeliano entro i confini pre-bellici, quindi il ritiro dai territori occupati? Israele si è sempre opposta a questa interpretazione, col pretesto evidente che nella versione inglese della risoluzione l’espressione è “from territories”, “da territori”; quindi, a suo parere, non da tutti quelli occupati. Territori che in oltre mezzo secolo, e soprattutto in questi ultimi anni, sotto la spinta dei “partiti nazional-religiosi” alleati di Netanyahu, han visto moltiplicarsi il numero dei coloni ebrei (“settlers”), per la verità anch’essi ritenuti illegali dal diritto internazionale?
Uno statu-quo che la comunità internazionale ha quindi in gran parte voluto forzare, visto che la stragrande maggioranza delle nazioni all’ONU hanno deciso comunque il riconoscimento della Palestina (che finora ha ottenuto soltanto lo statuto di osservatore senza diritto di voto). E lo ha fatto richiamandosi anche ad alcuni precedenti. Tre in particolare: durante il secondo conflitto mondiale i governi in esilio di paesi occupati dal nazismo (auto-esiliatisi soprattutto in Gran Bretagna) vennero riconosciuti come rappresentanti delle loro nazioni pur non potendo esercitare su di esso un controllo statale; nel caso del Kosovo, visto che ancora oggi una parte della comunità internazionale si rifiuta di riconoscerlo come Stato; e nel caso del Sudan vi fu un riconoscimento del governo nella parte meridionale del paese (quella a maggioranza cristiana perseguitata) nonostante la realtà sul terreno contraddicesse le “regole base di Montevideo”. È anche tenendo conto di questi precedenti che, con un opportuno ammodernamento e uno strappo a una regola non più coerente con gli sconvolgimenti della nostra epoca, i due terzi delle nazioni dell’ONU hanno deciso il riconoscimento della Palestina. Molto significativa la motivazione fornita negli scorsi giorni da uno degli ultimi ad associarsi, il governo della Norvegia, cioè del paese che aveva avuto un ruolo attivo nel conseguimento degli inapplicati accordi di Oslo. Il suo ministro degli esteri ha affermato: “Siamo stati a lungo indotti a pensare il riconoscimento sarebbe arrivato alla fine del processo (di pace); ora abbiamo capito che è il riconoscimento a poter dare impulso al processo”.
Procedura, quella di Madrid, Oslo, Dublino, e d altre 170 nazioni, che oggi si propone di dare maggiore concretezza e prospettiva alla soluzione dei due Stati, di cui ora quasi tutte le cancellerie mondiali si riempiono la bocca dopo averla vergognosamente trascurata per almeno un ventennio; che vuole favorire la promozione di una rinnovata Autorità Nazionale Palestinese (poco rappresentativa, debole politicamente, diffusamente corrotta, declassata dalle limitazioni imposte da Israele) per portare poi sotto il suo governo anche gli oltre due milioni di gazawi, vittime della punizione collettiva inflitta – anche se avvolta nella conclamata necessità di sradicare Hamas dopo il feroce attacco terroristico del 7 ottobre – all’intera popolazione della Striscia. Un contributo al consolidamento del progetto, pur lontano, di una possibile pace, a cui, secondo logica e necessità, dovrebbero partecipare anche i paesi arabi “moderati” (sul piano della politica estera), Arabia Saudita in testa, indispensabili per una stabilizzazione della regione.
Anche per questo è difficile capire la ritrosia di Berna. Tempi inopportuni, ripete il dipartimento di Cassis. Aggiungendo che la soluzione dei due Stati che può venire soltanto da un negoziato diretto fra i protagonisti di quest’ultima guerra, una delle più terribili fra le tante che si sono inanellate in Medio Oriente. Posizione che cozza contro ogni evidenza, ogni possibilità, ogni strada praticabile. Un riconoscimento della Palestina, per insistere sulla necessità della coesistenza e la realizzazione di un diritto non riconosciuto a una delle parti, non comprometterebbe e non cambierebbe nulla nell’immediato. Se non uno scatto d’ira diplomatica di Israele. E la disapprovazione USA. Non sia mai!
Nell’immagine: Ignazio “Tempi inopportuni” Cassis
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