Rivolte e occupazioni, vicine e lontane
Aleggia un odore di chiuso e di vecchio che si combina con il contesto occidentale generale, nel quale i tempi più cupi del secolo scorso sembrano ogni giorno più vicini - SOA il Molino
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Aleggia un odore di chiuso e di vecchio che si combina con il contesto occidentale generale, nel quale i tempi più cupi del secolo scorso sembrano ogni giorno più vicini - SOA il Molino
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• – Redazione
Aleggia un odore di chiuso e di vecchio che si combina con il contesto occidentale generale, nel quale i tempi più cupi del secolo scorso sembrano ogni giorno più vicini - SOA il Molino
Il 29 maggio 2021, un inquietante dispiegamento di polizia, rafforzato da corpi giunti d’oltralpe, sgomberava il Centro Sociale il Molino, per poi abbatterne illegalmente una parte, sabato notte.
A tre anni di distanza e dopo sette occupazioni – l’ultima sgomberata il 26 dicembre scorso, nonostante un fitto programma di iniziative sociali, culturali e politiche – la situazione sembra essere tornata quella precedente l’occupazione del liceo di Lugano nel 1974: un odore di chiuso e di vecchio che si combina piuttosto bene con il contesto occidentale generale, nel quale i tempi più cupi del secolo scorso sembrano ogni giorno più vicini.
Alcuni giorni fa, in una gremita aula del centro professionale di Trevano, si sono ricordate e ripercorse “ribellioni, rivolte, occupazioni, conflitti e assemblee” di quel maggio del 1974. A far riflettere – tra le tante cose – anche il fatto che quelle stesse parole e pratiche, rimangano oggi tabù, agitate spesso come spauracchi per giustificare repressioni sempre più sproporzionate.
A tre anni dallo sgombero del centro sociale occupato e autogestito, rimangono infatti il vuoto e l’urgente necessità di uno spazio libero al di fuori dalle imposizioni di Stato e mercato. Un luogo in cui confrontare e intraprendere percorsi di autodeterminazione, ribellione, libertà ed emancipazione.
Una necessità spaziale, in un mondo e in una “città-ticino”, in cui la generalizzata accettazione di un territorio-gabbia, ipercontrollato, pacificato e securizzato sembrano soddisfare sempre più goffamente l’artefatto bisogno di sicurezza percepita. Un territorio invaso da telecamere, polizia, radar, cemento, sbarre, fili spinati, leggi speciali, droni, in cui il tasso di suicidi e di ricoveri psichiatrici, dovuti soprattutto ad ansia e depressioni, è in allarmante aumento, soprattutto tra le persone più giovani.
Sarà forse solo un caso che una delle uniche università a non essersi mobilitata in Svizzera sulla questione palestinese sia quella nostrana, feudo politico ciellino-leghista? Un ateneo pacificato e asettico in cui una delle ultime iniziative del SOA il Molino sulla situazione attuale a Gaza, è stata banalizzata dalla retorica ufficiale come il consueto problema di ordine pubblico, con tanto di lezioncina sull’antisemitismo strombazzata dai giovani UDC. Partito con documentati legami con l’estrema destra neonazista, come Junge Tat e Nemesis, vedi ad esempio il neo-eletto municipale Marco Chiesa, immortalato a palazzo federale con alcune “attiviste” del gruppo Nemesis nel 2023.
Quella recentemente organizzata all’USI assieme al Coordinamento Unitario per la Palestina (CUSP), partecipata da una settantina di persone, riunite sotto il tetto videosorvegliato dell’entrata sul retro dell’USI, ha discusso sugli interessi economici e politici tra la Confederazione svizzera (in cui il municipio di Lugano è parte particolarmente attiva tra inviti, progetti, accordi e start up) e lo Stato di Israele.
Iniziativa che, come tante da noi organizzate (ultimo esempio quella svoltasi venerdì scorso, sulla resistenza del popolo Mapuche), si è tenuta all’Università. Fosse anche perché, oltre ad essere un sedicente luogo di formazione del pensiero critico, rimane anche l’unico spazio pubblico coperto da un tetto in questa città, fatta eccezione per gli autosilo! E al posto di indignarsi sul fatto che in Ticino “debbano essere i molinari a mobilitarsi per la Palestina” (come facciamo dal 1996 d’altronde!), sarebbe magari utile chiedersi come mai il terreno universitario (e in generale questo territorio) non producano nessuna ribellione, nessuna azione critica, nessuna anomalia al di fuori del possibile e dello stabilito. Una delle poche eccezioni la fondamentale esperienza della Fabbrica di Ospitalità, nata su iniziativa di docenti e studenti dell’Accademia di architettura di Mendrisio e mobilitata attorno alla questione migrante.
È invece in perenne iperproduzione il vomitevole discorso di chiusura e di paura che s’estende in Ticino e in Europa. Ultimo esempio l’allarmismo di varie istituzioni politiche sulla questione antisemita, senza che mai ci sia la richiesta di chiedere conto delle varie posizioni sovraniste, razziste e securitarie tanto in voga. Nessuno in grado di mettere minimamente in relazione il fatto che i “democratici di centro”, che difendono ora il genocidio di Gaza, sono gli stessi che rinchiudono persone migranti, discriminano persone rom, giovani esuberanti, persone transgender, anarchici e autogestiti. Basta vedere l’ultima becera e devastante iniziativa “per la protezione delle frontiere”, proprio mentre si fanno paladini della difesa dello Stato di Israele, i cui principi sono esattamente gli stessi: razzismo, dominazione, controllo!
From the river to the see, Palestine will be free è invece uno slogan coniato nel 1964 dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Viene scandito oggi proprio per rivendicare un territorio libero dall’occupazione e dal dominio dello stato colonialista israeliano. Un territorio nel quale il popolo palestinese possa vivere come comunità di persone liberata dalla dominazione coloniale. Dove possa vivere assieme a ogni altra persona libera, di qualsiasi confessione essa sia, come del resto è stato per oltre tre secoli sotto la dominazione ottomana (evidentemente anche la storia si studia molto poco nelle università ciellino-leghiste).
Sin dalle sue origini nel 1948, quella dello Stato israeliano di occupazione è infatti un’evidente politica del fatto compiuto. Occorre dunque partire dal dato di fatto che il popolo palestinese vive una situazione di apartheid, di occupazione e di colonizzazione: nella stessa Israele trattati come persone di seconda fascia, a Gaza rinchiusi e bombardati, in Cisgiordania contornati da un muro illegale e da check-points e nei campi profughi costretti a sopravvivere senza nessun diritto a un ritorno alle terre dalle quali sono stati espulsi nel 1948!
Per questo, dal fiume fino al mare, la Palestina sarà libera! E proprio in solidarietà alla Palestina scenderemo di nuovo in strada, a chiamata del CUSP, sabato 1 giugno 2024 alle 14.00 Lugano.
Ricordando infine che le responsabilità della vile distruzione di parte dell’ex macello sono sotto gli occhi di tuttx. Risiedono nelle alte cariche statali, municipali e di polizia che hanno programmato e agito nelle zone grigie di questo Paese, per quella che è stata una chiara azione punitiva e vendicativa. Vedremo se l’apertura dei sigilli lo potrà pure certificare ufficialmente.
A 50, a 28, a 3 anni da rivolte, occupazioni e sgomberi è forse giunto il tempo di riprendere attivamente quelle pratiche di resistenza, di solidarietà e di lotta tanto in voga allora, a fianco delle rivolte che scrivono la storia. In ogni caso, noi saremo ancora in giro a tesserle, nelle strade, nelle piazze, nelle università e in ogni luogo utile alla necessaria autodeterminazione.
Testo condensato dalla redazione. Qui la versione integrale
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