E dunque questo è «il paese delle ultime cose». Scriveva: «A una a una scompaiono e non ritornano più… non devi sprecare tempo a cercarle. Quando una cosa sparisce, finisce». Eppure s’invoca un minimo tempo supplementare per radunarle in questa cerimonia dell’addio, l’ultimo articolo su Paul Auster.
Le ultime immagini, quelle dopo il trasferimento a Cancerland, postate dalla moglie Siri, cronista dell’estrema tappa. Una su tutte, scattata dal genero, il fotografo Spencer Ostrander, pubblicata su Instagram il 20 gennaio scorso. Paul Auster indossa il berretto da marinaio di lana scura che occulta gli effetti della terapia sul cranio. Si sporge oltre il bordo di una culla di vimini dove è disteso il suo nipotino. I loro sguardi si incrociano. Cosa vuoi leggerci? La malinconia per non vederlo crescere? La pacificazione per averlo conosciuto e riempito così una casella che si era svuotata? È negli occhi di chi guarda: nei suoi c’è il ciclo della vita, incontrastabile. L’accettazione è una vittoria, non una resa.
L’ultimo desiderio rivelato: smetterla di combattere una guerra dove ogni battaglia si concludeva nell’inizio di un’altra, ogni cicatrice produceva nuove ferite. Chi ha visto troppi destini ripiegarsi non può cedere all’autocommiserazione e lui non l’ha fatto. Solo una piccola richiesta ancora: morire raccontando una barzelletta. «Improbabile», gli ha detto la moglie. Un ultimo sorriso. This is the end, my friend, non è l’inizio, «quando ogni cosa era viva. Ogni oggetto aveva un cuore pulsante e anche le nuvole avevano nomi… i rami degli alberi erano braccia, le pietre potevano pensare e Dio era ovunque».
Le ultime iperboli postume: “La voce di New York”, ma era (come Philip Roth) nato a Newark, nel New Jersey. Un piccolo inganno di prospettiva, come l’idea che avesse origini umili perché aveva fatto molti mestieri a Parigi (il padre viveva delle rendite di appartamenti in affitto), che fosse amato in America (lo era di più in Europa). O ancora: “Il santo patrono di Brooklyn”. È vero che l’avesse resa, tra i primi, la nuova Manhattan, il centro artistico alternativo, ma laicamente, senza consacrarla o elevarla, anzi corteggiandone la follia.
L’ultimo dispetto: i “coccodrilli” con le citazioni delle recensioni negative ai suoi libri più recenti o di giudizi critici impietosi sulla sua intera opera. Aveva smesso da tempo di leggere tutto quel che si scriveva di lui: per sensibilità, non per suscettibilità. Non gli arrivava il chiacchiericcio: «I primi sì, ma poi…», «4, 3, 2, 1…via!». Gli scrittori che hai amato sono tra gli amici più veri della tua vita. Che tu li abbia incontrati o no. Che tu sia stato nella loro casa, seduto in cucina, mentre la moglie rientrava. Che sia salito nella terrazza sul tetto, da dove hanno guardato le torri crollare la mattina dell’11 settembre 2001, palpitando per la figlia che si trovava proprio là, dall’altra parte del fiume, oltre i ponti. Hai imparato a riconoscerli dalla prima riga («Un giorno c’è la vita» oppure «Sono solo nel buio») è un ciao, eccomi qui, sono tornato per dirti ancora una cosa. Non importa che cosa: un capolavoro di storia o una trascurabile, di passaggio, vera o inventata.
È il tono, quello di chi ti sta consegnando un pezzo di sé, fidandosi. Mica puoi dargli le stellette, quando ha finito. Nel dialogo che conclude la sceneggiatura di Smoke, Auggie Wren (Harvey Keitel) e Paul Benjamin (William Hurt) si dicono: «Se non potessi confessare i miei segreti a un amico, a che cosa servirebbero gli amici?». «Giusto, non varrebbe la pena di vivere, dico bene?». Vivere per raccontarla, vivere per ascoltarla. «Quando una persona muore, a poco a poco tutte le tracce di quella vita spariscono… la maggior parte della gente non si lascia alle spalle monumenti o prodotti duraturi». Figli, nipoti. Scrittori avventati parlano dei propri libri negli stessi termini. Possono valere di meno o di più, ma solo in termini di durata. Il giorno dopo l’annuncio, a centinaia hanno fotografato i volumi impilati, poi li hanno riposti sullo scaffale con delicatezza, ma anche con il retropensiero di non dover lasciare spazio per una eventuale aggiunta, di poter proseguire in ordine alfabetico o per analogia. Collezione finita. Semmai, un giorno, rileggere: qua e là, per nostalgia di sé stessi. Com’eri quando scopristi la Trilogia?
Due giorni fa ho cercato le sue ultime parole. Non tra i resoconti giornalistici, ma nei suoi libri. Ho scorso le righe finali di ciascuno, annotato via via quel che, messo insieme, poteva comporre un commiato. Qui indico la fonte, tra parentesi e in corsivo, ma potete leggerle senza interruzioni.
- «Smettila di sperare in qualsiasi cosa e vivi solo per il presente, per questo istante passeggero, l’adesso che è qui poi non c’è più, trascorso per sempre (Sunset Park)
- È stato. Non sarà mai più. Ricorda. (L’invenzione della solitudine)
- Una porta si è chiusa, un’altra si è aperta (Diario d’inverno)
- Le luci si spengono. (Viaggi nello scriptorium)
- Chiudete gli occhi; allargate le braccia e lasciatevi svaporare. A quel punto, poco alla volta, vi solleverete da terra. Ecco, così. (Mr. Vertigo)
- Volevo scrivervi una lunga lettera per trattenere la vostra attenzione il più a lungo possibile. L’ho fatto con sforzo e amore. Mi mancate molto. Con affetto, Paul (Notizie dall’interno)
- P.S. Quando giungeremo dove siamo diretti, tenterò di scrivere ancora, lo prometto. (Nel paese delle ultime cose)
- La cinepresa segue il fumo che sale verso il soffitto. Primo piano del fumo. L’inquadratura dura tre o quattro secondi. Lo schermo diventa nero. Inizia la musica. Titoli di coda (Smoke)».