Alcune cose da sapere su Cop28, la conferenza sul clima che inizia oggi
Si apre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che ospiterà 70 mila partecipanti e si presenta non senza grossi interrogativi
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Si apre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che ospiterà 70 mila partecipanti e si presenta non senza grossi interrogativi
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• – Redazione
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• – Spartaco Greppi e Christian Marazzi
Si apre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che ospiterà 70 mila partecipanti e si presenta non senza grossi interrogativi
Cop28, la ventottesima edizione della Conferenza delle parti delle Nazioni unite dedicata al clima, richiama negli Emirati Arabi Uniti settantamila partecipanti, il numero più alto di sempre. Dopo l’accordo sul fondo per perdite e danni raggiunto l’anno scorso alla Cop di Sharm el Sheikh, in Egitto, a Dubai si attendono i dettagli operativi. Ma il piatto principale del menu emiratino è senz’altro il cosiddetto global stocktake, cioè il primo “tagliando” dell’accordo di Parigi siglato nel 2015.
La Conferenza delle parti sul clima nasce dalla Conferenza di Rio del 1992 per raccogliere attorno a un tavolo tutti i Paesi del globo allo scopo di tagliare le emissioni di gas serra. Il mondo attuale è molto diverso da quello del 1992: la Cina di oggi ha definitivamente abbandonato la povertà, l’India è ben avviata sulla strada dello sviluppo. Ma, nonostante oggi inquinino moltissimo, la posizione nei trattati è rimasta la stessa, e anche gli oneri, parametrati alle emissioni degli anni Novanta.
È difficile dare l’idea della complessità di queste conferenze: oltre centottanta paesi, ognuno con decine di negoziatori, un calendario fittissimo. Le posizioni negoziali, in un’assemblea del genere, spesso sono agli antipodi: per questo i lavori vengono preparati con ampio anticipo dai cosiddetti sherpa. Il voto finale non avviene per alzata di mano ma con una procedura chiamata consenso: in mancanza di opposizioni evidenti, la mozione passa.
La Cop28 si terrà a Dubai, negli Emirati arabi, nel quartiere Expo City. A ospitare negoziatori, membri delle ong e media sarà una struttura enorme (la cosiddetta Blue zone) ; ci sarà, inoltre, un’area dedicata alla società civile (Green zone). Novanta tra ristoranti e caffè serviranno 250mila pasti al giorno, dichiarano gli organizzatori, tutti “allineati all’obiettivo di contenere il riscaldamento entro gli 1,5 gradi” con un conteggio calorico preliminare sui menu.
I grattacieli con hotel a sette stelle, lo sfarzo ostentato e le piste da sci nei centri commerciali non fanno di Dubai una città dalla fama di attenta alla sostenibilità, ma le autorità dichiarano di prendere sul serio la transizione energetica e di essere sulla strada di una riconversione. Alcuni studiosi propongono di prendere di mira i profitti, e non i consumi. In questo modo la tassazione sarebbe più equa. E potrebbe davvero spingere a ridurre l’inquinamento.
Cop28 avverrà in un paese produttore di petrolio e il presidente è Sultan Ahmed Al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi national oil company (Adnoc), la compagnia petrolifera statale. Scelte contestate dagli attivisti. “Comprendo il ragionamento, ma dal mio punto di vista è necessario dialogare anche con queste realtà – afferma Silvia Francescon, esperta di politica estera per il think tank italiano Ecco -. Si tratta di interlocutori necessari per arrivare a un negoziato realmente rappresentativo”.
Che conferenza sarà? “Da Madrid in poi le Cop sono state esclusivamente politiche – chiosa Jacopo Bencini, policy advisor del gruppo di ricerca Italian Climate Network, che aggrega scienziati e studiosi italiani -. L’accordo di Parigi è chiuso, il Paris Rulebook è entrato in vigore: ora bisogna solo applicarli e implementarli. Dal punto di vista negoziale, insomma, credo che non ci saranno grandi passi in avanti, a parte le decisioni sul global stocktake”. “Sono convinto però che vedremo – prosegue Bencini – una Conferenza della parti a due velocità”. Se nelle sale negoziali potrebbe essere un anno di transizione, dice l’esperto, “a latere mi aspetto un iperattivismo emiratino, con molti annunci su finanza e rinnovabili”. Perché il minuscolo Paese mediorientale è ansioso di sfruttare la visibilità garantita dalla kermesse globale, e forte delle note disponibilità di denaro l’occasione è buona per stringere qualche nuova alleanza e proiettare l’influenza all’estero. Nei mesi scorsi Dubai ha promesso all’Africa 5 miliardi per la cooperazione climatica.
Quest’anno i lobbisti (da sempre tanti, vengono contati tutti gli anni dalle ong) dovranno indicare sul badge l’organizzazione di appartenenza. Basterà a far luce sui partecipanti a Cop? Sono inoltre rigorosamente vietate le proteste al di fuori dell’area di Cop28, niente slogan politici, equipaggiamento video rigorosamente schedato per tutti i giornalisti che entrano nel Paese. Le limitazioni nelle applicazioni di messaging in vigore nel Paese mediorientale, da Whatsapp a Telegram, non renderanno facili le comunicazioni.
Ci sono altri fattori da considerare alla vigilia. L’incontro tra i presidenti di Cina e Stati Uniti, Xi Jinping e Joe Biden, delle scorse settimane, dopo anni di tensioni, ha aperto uno spiraglio per chi crede nella cooperazione tra i due giganti, che sono anche i maggiori inquinatori globali. Durerà? “Non ci possiamo permettere di non essere speranzosi – riflette Francescon -. I negoziati sul clima, del resto, hanno sempre aiutato il dialogo diplomatico. E l’incontro tra i due leader è incoraggiante; non va dimenticato che nel 2015 l’intesa tra Washington e Pechino fu determinante per arrivare all’accordo di Parigi”.
“Per noi sarà un successo solo se si verificheranno due condizioni – annuncia Chiara Martinelli, direttrice di Climate Action Network Europe, rete che raccoglie 180 organizzazioni ambientaliste continentali -. Primo, un impegno concreto nella dichiarazione finale all’eliminazione di tutte le fonti fossili, il cosiddetto phase out. Secondo, più finanziamenti veri per tutti paesi poveri: fair funded future potrebbe essere lo slogan”. Una buona notizia, al riguardo, è giunta pochi giorni fa: sarebbe stato raggiunto l’obiettivo di cento miliardi in aiuti per la crisi climatica all’anno, secondo dati preliminari dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. La promessa era stata fatta a Copenaghen nel 2009, e il traguardo arriva tre anni dopo rispetto all’obiettivo fissato per il 2020, ma era inaspettato. La Cop28 avviene in quello che è ormai riconosciuto come l’anno più caldo della storia e non si contano i disastri ambientali.
Con l’accordo di Parigi del 2015 per la prima volta tutti i Paesi si sono impegnati a mantenere la temperatura “ben al di sotto” dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e a proseguire gli sforzi per restare entro gli 1,5 gradi, soglia ritenuta più sicura per combattere i devastanti effetti del cambiamento climatico. Il problema, fanno notare gli scienziati, è che il mondo è già arrivato oltre gli 1,3 gradi e il margine di manovra è estremamente ridotto. L’accordo di Parigi stabilisce che ogni Paese fissi da sé i propri obiettivi climatici (Ndc – National determined contributions).
Ma il mondo saprà chi bara, con il global stocktake. Si tratta del controllo dei compiti a casa, da tenersi ogni cinque anni a partire dal 2023. Al momento, ognuno fa i conti a modo proprio, rendendo molto difficile il lavoro di comparazione. Gli indicatori dicono che con gli impegni presi fino a oggi l’aumento delle temperature non resterà confinato entro i limiti di Parigi, ma sfiorerà i 3 gradi entro il 2100.
Letteralmente “perdite e danni”, la terza gamba della finanza climatica, dopo mitigazione (ridurre, cioè, le emissioni serra), e adattamento (predisporre misure di contenimento per prepararsi agli eventi estremi). Se la Cop di Sharm, partita sotto tono, si è conclusa con un successo è perché in Egitto si è deciso di istituire un nuovo fondo.
Un incontro ad Abu Dhabi a inizio novembre ha formalizzato alcune raccomandazioni da portare a Cop28. La più controversa riguarda la possibilità di ospitare il fondo presso la Banca Mondiale, dominata dagli Stati Uniti. Troppo potere all’Occidente, sostengono alcuni paesi, che lo accusano di essersi arricchito sfruttando l’energia derivata dalle fonti fossili e chiedono di poter fare lo stesso. Il gruppo negoziale G77 + Cina – composto dagli Stati in via di sviluppo con l’aggiunta di Pechino – spinge in questo senso, ed è dotato del peso per spostare gli equilibri.
Un altro punto nodale del nascituro fondo sarà l’allargamento della base dei donatori. “I paesi che hanno inquinato di più storicamente devono ovviamente contribuire per primi – dice Chiara Martinelli di Climate Action Network Europe – anche per togliere un alibi agli altri: è a quel punto che giganti come Cina e India saranno costretti a entrare in gioco”. L’obiettivo è rendere il fondo operativo già nel 2024. A dare il buon esempio potrebbe essere l’Unione europea: il nuovo commissario al clima Wopke Hoekstra nei giorni scorsi ha annunciato “un sostanziale contributo finanziario da parte della Ue e dei suoi stati membri”. “Sembrava tutto bloccato a livello continentale: poi la dichiarazione di Hoesktra e quella congiunzione che include tutti gli Stati membri lasciano ben sperare” chiosa Bencini.
Se dopo il sesto rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc, il gruppo di scienziati che assiste l’Onu sul tema) è assodato che la crisi a cui assistiamo ha una matrice industriale, la disinformazione negli anni è cambiata, raffinando le armi e adattandole al mutato contesto: “Non si parla più di negazionismo – rileva Martinelli – ma l’accento si è spostato sul fatto che le soluzioni proposte a oggi non funzionerebbero e aumenterebbero povertà e disuguaglianze”. Un argomento non privo di mordente tra i cittadini esasperati dall’inflazione, ma che piace molto anche al Sud globale. Il compromesso tra istanze climatiche, economiche e sociali sarà il sacro Graal dei prossimi anni.
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