Qualche giorno fa la
CISL Lombardia ha presentato, insieme a
Bibliolavoro e
all’Ufficio Vertenze Lombardia Sindacare, i risultati di una ricerca sulle grandi dimissioni dal titolo “
Dentro l’epoca della Great resignation. I nuovi fattori di attrattività del lavoro nella società che cambia”. La ricerca offre diversi spunti. In primo luogo, i numeri. Se, a livello nazionale italiano ci sono state quasi 2 milioni di dimissioni volontarie nel 2021 e 2,2 milioni nel 2022, in Lombardia si sono registrate 420.000 dimissioni nel 2021 e 566.000 nel 2022, circa il 12% dei lavoratori occupati. Numeri significativi, ai quali la ricerca affianca un’analisi delle cause delle dimissioni volontarie, grazie a un questionario compilato da circa 2000 dimissionari che si sono rivolti al sindacato.
Perché, dunque, le persone lasciano il lavoro? Secondo la CISL, le principali ragioni sono quattro: un eccessivo stress lavoro correlato (36%), un clima aziendale tossico (34,9%), la ricerca di un miglioramento economico (29,5%) o di una migliore conciliazione tra vita e lavoro (26,2%). Non si tratta, dunque, solo di dimissioni rimandate dal 2020 o della risposta razionale a un vivace mercato post-pandemico. Si tratta, piuttosto, del tentativo di migliorare la propria situazione sottraendosi a un contesto insoddisfacente. In questo senso, la parte più interessante della ricerca è volta a problematizzare le conclusioni frettolose con cui, a volte, il fenomeno è stato liquidato negli scorsi mesi.
Per esempio, l’affermazione della Banca d’Italia, in base alla quale “i lavoratori hanno rassegnato le dimissioni solo a fronte della prospettiva di un nuovo impiego”. Secondo lo studio, a fronte di un 64,5% di persone che avevano la prospettiva di un nuovo impiego quando hanno lasciato il posto, il 35,5% non ne aveva alcuna. Per la Banca d’Italia, inoltre, la maggior parte dei cambi di impiego sarebbe avvenuta all’interno dello stesso settore. I dati della ricerca, invece, spiegano che, in Lombardia, solo il 52% dei dimissionari dal commercio è rimasto all’interno del comparto. Il 48% si è spostato verso l’industria metalmeccanica, i servizi alle imprese o l’industria alimentare. Similmente, solo il 56,6% dei dimissionari è rimasto nella ristorazione, mentre il 43,4% si è spostato verso l’industria metalmeccanica, il commercio o attività sportive e artistiche. Nel terziario avanzato, infine, il 75,6% è rimasto nel settore, i rimanenti si sono spostati verso la pubblica amministrazione, l’industria metalmeccanica e il commercio.
Il mercato del lavoro, insomma, è cambiato. Quando Gian Maria Volonté recitava nel celebre film di Elio Petri, l’industria metalmeccanica era l’epitome dello sfruttamento. Ora c’è chi lascia il lavoro nel terziario per rifugiarsi in questo settore. In un terziario gravato da appalti e part-time involontario, dove i turni cambiano all’ultimo momento e i salari sono bassi, del resto, è spesso difficile controllare quando e come si lavora. Quest’esigenza, tuttavia, ci dicono molti studi, è sempre più diffusa dopo la pandemia. In questo contesto, non è detto che lasciare consenta, necessariamente, di migliorare la propria situazione. Dal punto di vista contrattuale, ad esempio, il 75,6% lascia un lavoro a tempo indeterminato, ma solo il 57,3% approda a questo tipo di contratto nel nuovo lavoro. La stabilità dell’occupazione, dunque, in molti casi peggiora. Secondo il rapporto, tuttavia, questo peggioramento viene compensato da un miglioramento nell’autonomia (52,7%), nel riconoscimento delle proprie competenze (63,5%), nella possibilità di conciliare vita e lavoro (58,5%), nel trattamento economico (61,3%), e nelle prospettive di carriera (47,8%). Forse è per questo che, se tornasse indietro, il 93% degli intervistati lo rifarebbe, alla faccia del great regret, il “grande pentimento” che avrebbe fatto seguito alle grandi dimissioni.
Lasciare non risolve tutti i problemi. Spesso, tuttavia, migliora qualche cosa. Il rapporto CISL, da questo punto di vista, ci ricorda che per capire le cause delle dimissioni volontarie bisogna entrare in un terreno di contraddizioni in cui le priorità individuali cercano continuamente nuovi spazi di negoziazione all’interno delle complessità organizzative di comparti diversi. Spesso, è proprio laddove questa negoziazione si fa impossibile, che possiamo rinvenire le cause di una disaffezione che continua a lasciare diversi comparti economici a corto di personale, come accade nella ristorazione e nel commercio. Cercare scorciatoie interpretative è facile e rassicurante. Ma non risolve il problema.
Articolo scritto per Il Sole 24 ore
Nell’immagine: Gian Maria Volonté ne “La classe operaia va in paradiso” di Elio Petri (1971)