Di Ezio Mauro, La Repubblica
Sovrano senza più ostacoli nella fase che stiamo attraversando, signore senza avversari della confusione che chiamiamo modernità, lo spirito dei tempi è ormai l’unico soggetto che interpreta l’epoca mentre la modella, inclinandola secondo le sue coordinate e i suoi obiettivi.
Ecco perché ci arrendiamo facilmente al senso comune dominante: perché si presenta come la legittima chiave di lettura di questi anni della nostra vita, la cornice culturale che li avvolge e li determina.
Non trovando più sul suo cammino barriere ideologiche, strutture politiche consapevoli e resistenti, costruzioni culturali autonome, l’influsso del tempo oggi soffia dove vuole, spingendoci nella direzione che ha scelto: e in cui noi rischiamo di muoverci da gregari, e cioè come semplici follower.
Se si accetta questo stato di cose, tutto entra in movimento, e tutto trova una sua impaurita coerenza. La visione è una nitida concatenazione: il mondo è ormai troppo complesso e questa problematicità lo rende istintivamente ostile, trasformando la globalizzazione in una minaccia universale.
L’immigrazione diventa l’immagine fisica di questa minaccia alla sicurezza e all’identità, facendo sentire le singole persone mondializzate a casa loro. La politica non riesce più a riprendere il controllo delle crisi che appaiono dunque ingovernabili, sommando l’emergenza finanziaria a quella sanitaria, e sfociando addirittura nella guerra.
Scoperto ed esposto, l’individuo precipita in una nuova solitudine interconnessa, dove finisce per addebitare le mancanze e i ritardi della politica direttamente alla democrazia, da cui non si sente più protetto, di cui non sente più il bisogno, e a cui non riconosce più il primato.
Isolato davanti a nuove e vecchie paure, chiede al potere semplificazione e verticalizzazione come via d’uscita, in modo da mettere direttamente a contatto i governati con i governanti, senza i lacci e i lacciuoli delle regole di garanzia e dei meccanismi di controllo.
Giunto a questo punto l’individuo è ancora cittadino, ma soltanto nelle pretese: mentre è già ribelle nel suo rapporto con lo Stato, con ogni passione spenta, ormai sostituita da una nuova diffidenza che giorno dopo giorno porta all’estraneità.
Si capisce come il populismo sia la formula più adatta a interpretare questo stato d’animo, e soprattutto a rappresentarlo: sia il populismo sovranista della destra estrema che ci governa e sia il populismo “progressista” che fatica a dirsi di sinistra, proprio perché non ha radici e punta a intercettare questi umori misti e compositi che crescono nelle due metà del campo.
Per entrambi valgono idiosincrasie condivise, prima di tutto nei confronti della competenza, della tecnica e dell’esperienza, nell’eterno disprezzo per il sapere, visto come cifrario riservato della casta e strumento della sua auto-riproduzione.
Il nemico comune è naturalmente l’élite, entità fantasmatica che confisca la verità e la sostituisce con un falso racconto della realtà, per nascondere complotti, interessi inconfessabili, trame occulte.
Al posto delle conoscenze ripudiate, il populismo insedia le credenze che diffonde, proponendo uno scambio politico minimo, per trasformare la partecipazione in adesione: mentre la popolarità (distribuita a chiunque dalla televisione) sostituisce la fama, la popolarità soppianta la stima e la connettività prende il posto della collettività, in una riduzione costante della politica sia nella domanda che nell’offerta.
Potremmo chiamare questo rischio la sterilità della democrazia. Tocqueville lo intravvedeva nel 1840 in “una folla innumerevole di uomini simili e uguali che girano senza posa su se stessi, e ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri, è vicino a loro ma non li vede, li tocca ma non li sente, vive solo in se stesso e per se stesso”.
Sopra questi uomini “s’innalza un potere immenso e tutelare, che assomiglierebbe al potere paterno se avesse per fine di prepararli all’età virile: ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia. Perché non può togliere loro del tutto anche il fastidio di pensare”?
La profezia sembra destinata ad avverarsi. Tuttavia un’uscita di sicurezza esiste, perché comunque non siamo predeterminati, ma conserviamo una libertà anche sul fondo della crisi. Anzi, non dobbiamo dimenticare che lo spirito dei tempi è il frutto e la sintesi delle scelte che abbiamo compiuto, degli errori commessi e delle occasioni perdute.
Siamo dunque noi, in buona sostanza, che determiniamo il genius saeculi, cioè la filosofia quotidiana della storia, risultato di ciò per cui soffriamo e gioiamo nelle nostre incombenze personali e nella nostra capacità di metterci in relazione con le vicende del Paese e con il corso del mondo.
Dunque possiamo scegliere di non arrenderci al contesto, per testimoniare una diversa interpretazione dell’epoca, uscendo dalla gabbia del senso comune dominante. Un’altra visione del mondo è possibile, un’obiezione è auspicabile. Ancora una volta, dipende da noi.
Nell’immagine: Utrecht, Paesi Bassi, 23 novembre: una protesta contro la vittoria di Geert Wilders