Chi è caduto nella trappola di chi? Hamas con la strage di civili del 7 ottobre, o Israele con la ferocia della sua rappresaglia? A guerra israelo-palestinese in corso, la risposta che può cambiare la mappa mediorientale rimane aperta. Ancora imperscrutabile. Per nulla scontata. Lungo un orizzonte incerto, aperto a soluzioni diverse. Lo è per i co-protagonisti esterni (dall’Iran alle monarchie del Golfo, dal Libano agli Stati Uniti). E naturalmente per i due principali attori del sanguinoso conflitto: uno Stato ebraico che mai si è sentito così lacerato e vulnerabile nei suoi 75 anni di storia, per responsabilità anche di un governo che viene indicato come co-responsabile del primo pogrom anti-ebraico del dopoguerra; e per un regime islamista che con il suo attacco di tipo terroristico ha esposto la popolazione palestinese della Striscia a una tragedia che per vittime, feriti, distruzioni non ha precedenti.
Sui motivi di questa offensiva s’è detto molto. Sintetizzando: contestazione violenta di accordi regionali per il reciproco riconoscimento fra governo Netanyahu e monarchie sunnite (Arabia Saudita compresa), intese che avrebbero ulteriormente messo nel dimenticatoio della Storia l’infinita questione palestinese; regia dell’Iran degli ayatollah consapevole di essere nel mirino dell’ attacco preventivo più volte minacciato dall’ “entità sionista”; volontà di Hamas di allargare con un gesto eclatante la sua popolarità e la sua leadership sull’intera comunità degli arabi “occupati” della Cisgiordania; la probabile illusione che lo stesso premier israeliano che sosteneva la necessità di avere a Gaza City un nemico utilissimo a disunire il campo avverso, sterilizzare ogni prospettiva di dialogo con i rappresentanti palestinesi, annullare definitivamente la soluzione dei ‘due Stati’ (il trompe-l’oeil di Oslo) avrebbe reagito con calcolata ma non devastante misura. Un’illusione. Che era assolutamente prevedibile.
Ma allora chi decise in Hamas il terrificante blitz contro kibbutzim, villaggi del Negev, rave giovanili, con una ferocia che rischia di trasformarsi in suicidio politico del movimento islamista? È nel lungo, articolato, sotterraneo e poco conosciuto confronto-scontro all’interno di un movimento solo in apparenza monolite che si trova una possibile e realistica ipotesi: con il definitivo prevalere dell’ala militare sull’ala politica dell’organizzazione jihadista. Ne è convinta Paola Caridi [della quale abbiamo pubblicato recentemente un’intervista, ndr], storica e saggista, da oltre un ventennio impegnata a scrutare le diverse sfaccettature delle vicende arabe e israeliane, ed autrice del noto “Hamas, dalla resistenza al regime” (ed. Feltrinelli), apparso per la prima volta nel 2009, e ora tornato a tempo record nelle librerie in forma aggiornata. Una ricostruzione scaturita da innumerevoli viaggi, colloqui in esclusiva, una fitta rete di contatti e conoscenze, che garantiscono uno sguardo approfondito, scrupoloso e dettagliatissimo dell’ideologia e delle scelte tattiche di quello che per lungo tempo è stato considerato il “mistero Hamas”. Resoconto appassionante e anche inquietante. Che l’autrice riesce a inanellare nei capitoli che vanno dagli Anni Ottanta della “prima Intifada” (pochi sanno che proprio con la partecipazione alla “rivolta delle pietre” coincide la nascita del movimento) alla brutale svolta delle ultime settimane.
Si scopre così un percorso che proprio lineare non è. Ma è piuttosto la ricerca e poi l’affermazione di un ruolo che – fatta salva l’ispirazione religiosa – ha obbligatoriamente attraversato fasi apparentemente contraddittorie, anche se sempre ancorata a una parola, “resistenza”, contro uno Stato ebraico che nemmeno dovrebbe esistere, che va dunque estirpato con la forza. Come del resto recita espressamente la Carta dell’agosto 1988, e come precedeva nella sostanza anche il programma dell’OLP guidata da Yasser Arafat prima della stretta di mano con Yitzhak Rabin. Ma, rivela Paola Caridi sulla base di numerosi documenti inediti e discorsi a lungo tenuti segreti, una Carta oggetto anche di ipotesi di riformulazione all’interno di Hamas. Con una componente più moderata disposta a una revisione radicale, che potesse anche accreditare il movimento a livello internazionale, e predisporre qualche forma di dialogo con lo stesso Israele che aveva favorito e sostenuto la nascita di Hamas come organizzazione religiosa-sociale-caritatevole da mettere in competizione con i laici di Hamas. E infatti viene rivelato che alcuni esponenti islamisti (infine usciti dalle moschee e scelta la lotta armata) ebbero colloqui sia con Shimon Peres sia con Rabin. “La Carta non è il Corano”, arrivò a dichiarare Mohammed Gazhal, uno dei suoi massimi esponenti. E non fu l’unico.
Ma vi sono altri passaggi sorprendenti nel libro “Hamas”. Alcuni esempi: lo sceicco Ahmed Yassin, non vedente, ideologo e guida indiscussa dell’organizzazione (poi ucciso dagli israeliani con un omicidio mirato), il quale, attraverso la mediazione di re Hussein di Giordania, propone agli israeliani una “hudna”, una tregua di venti o trent’anni, subito respinta da Tel Aviv; oppure, documenti di Hamas in cui si riconoscono i confini del 1967, implicitamente riconoscendo così che un’entità nazionale palestinese transitoria potesse nascere nella parte di territorio (assai ridotto dopo la guerra del 1948 per responsabilità araba) che l’Onu aveva assegnato nella spartizione della Palestina storica; ancora, la decisione autonoma di porre fine alla campagna degli attacchi suicidi, ufficialmente iniziata dopo la strage sulla tomba dei patriarchi di Hebron per mano di un rabbino americano, con 19 morti palestinesi, più quella dell’attentatore; inoltre, il tormentato dialogo interno per passare alla “fase partecipativa”, quella che più tardi spinse Hamas a ipotizzare la creazione di un partito parallelo alla formazione militare; più tardi lo convinse ad aderire comunque all’OLP di Arafat e a partecipare alle libere elezioni del 2006 (controllate da centinaia di osservatori internazionali) vinte dal movimento islamico, maggioritario nel nuovo parlamento del popolo sotto umiliante e discriminatoria occupazione militare. Ma per Arafat, per Israele, per la comunità internazionale “i palestinesi avevano sbagliato voto”, come ha ricordato ironicamente ma amaramente il filosofo Noam Chomsky. Quindi vittoria negata e guerra fratricida inter-palestinese. Una fase, quella “partecipativa”, di cui, sottolinea Paola Caridi, con più saggezza e lungimiranza, l’Occidente avrebbe dovuto prender atto, almeno per verificare quanto essa potesse predisporre Hamas a sbarazzarsi della sua narrazione di voler puntare esclusivamente sulla lotta armata.
Nulla, naturalmente, che nel libro “Hamas, dalla resistenza al regime”, sottovaluti gli errori politici, nonché le responsabilità stragiste e strategiche del movimento. Anche in quell’alba terribile di quasi due mesi fa. Decisione di attaccare adottata in solitaria della componente militare dell’organizzazione. E qui, nell’edizione aggiornata, l’autrice si basa anche, ma non soltanto, su una rivelatrice ammissione di un altro ex dirigente e ideologo dell’islamismo gazawi: è stato infatti Abu Marzuq ad ammettere che “tutti i leader di Hamas che non sono capi militari hanno ricevuto la notizia dell’attacco solo il sabato mattina”, dunque a cose fatte. Ed era la prima volta che l’ala militare di Hamas, diretta dall’uomo-ombra Yawa Sinwar (ex detenuto, paradossalmente scarcerato da Israele nello scambio per la liberazione del soldato-ostaggio Shalit) è intervenuta in maniera eclatante senza informare i quadri politici. “In questo senso – ne deduce Paola Caridi – i ‘militari’ hanno pianificato l’offensiva senza una chiara finalità strategica. Se l’obiettivo tattico è di attirare gli israeliani nella trappola della guerriglia urbana, è evidente che essi non hanno preso in considerazione il fatto che a morire saranno soprattutto i civili palestinesi. Insomma, l’attacco del 7 ottobre, che rischia di trasformare la Striscia di Gaza in un cimitero a cielo aperto, pare essere stato organizzato senza una strategia di lungo periodo. Dunque rischia di ritorcersi contro Hamas”.
Sicuramente mancano, in questa conclusione, un riferimento e una riflessione critica sulla cieca violenza delle milizie penetrate in territorio israeliano dalla (ex) blindatissima Striscia: perché? che tipo di ordine avevano ricevuto? comprendeva anche atti ignobili, come l’uccisione di bambini e lo stupro di donne israeliane? Paola Caridi ha comprensibilmente il passo lungo e cadenzato della Storia, e la qualità del suo libro ne beneficia. Eppure, su quel punto, una risposta urge.
Nell’immagine: sostenitori di Hamas