Allarmi o inutili speranze. La dittatura teocratica non cambierà
Perché la scomparsa del presidente iraniano Raisi, vittima di un incidente aereo, non aprirà un vuoto di potere a Teheran
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Perché la scomparsa del presidente iraniano Raisi, vittima di un incidente aereo, non aprirà un vuoto di potere a Teheran
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Perché la scomparsa del presidente iraniano Raisi, vittima di un incidente aereo, non aprirà un vuoto di potere a Teheran
Dentro un minimo di interlocuzione politica, ma di fatto incastrata in la confezione istituzionalmente saldata, lasciata in eredità dall’ayatollah Khomeini. Difficile se non (ancora) impossibile da sradicare, vincere, azzerare dal basso. Regime teocratico, che all’occorrenza più che ad Allah si rifà a Ciro il Grande quando si tratta di rianimare la lontana grandezza della nazione, come accade spesso negli ultimi tempi. Probabilmente inutile, perciò, immaginare che la morte del capo dello stato Ebrahim Raisi, deceduto col suo ministro degli esteri nell’elicottero sfracellatosi fra le nebbie e le montagne al rientro dall’Azerbaigian, possa decapitare politicamente il paese e destrutturarne l’impianto istituzionale.
Non ingannino troppo le manifestazioni di giubilo (fuochi d’artificio, meme, dileggio e feroci battute sui social) che ancora ieri sera, quando la notizia non era ufficiale, nelle regioni contestatrici e soprattutto quella curda, hanno tifato per la possibile scomparsa del numero due della gerarchia islamica. Per mantenersi al potere, la dittatura religiosa ha ancora buone riserve di forze repressive, e (soprattutto nelle campagne) anche di adesione popolare pagata a suon di preziosi sussidi economici e sociali. Del resto, lo scomparso non era certo un politico particolarmente apprezzato. Semmai una sorta di zelota, un irriducibile, un esecutore senza tentennamenti della faccia peggiore del regno integralista.
Fin da quando, giovanissimo, venne inserito in uno dei cosiddetti “Comitati della morte”, giurie locali con pieni poteri che, nell’applicazione distorta ed estrema della ‘sharia’, in tutto l’Iran procedettero a migliaia di incarcerazioni ed esecuzioni dei giovani che per primi tentarono una contestazione organizzata. Un Raisi mai protagonista in proprio (come accadde per altri religiosi usciti dai seminari di Qom), ma via via promosso soprattutto per la sua spietata fedeltà. Quindi: per tre lustri vice-procuratore generale (si racconta che per accertarsi dell’esecuzione delle pene si presentasse spesso alle impiccagioni), capo dal 2014 del sistema giudiziario, personalmente colpito dalle sanzioni occidentali per violazione dei diritti umani, e dopo un primo timido tentativo finalmente eletto presidente tre anni fa, ma con la più bassa percentuale di partecipazione al voto nella storia della nazione islamizzata.
Eletto, soprattutto, per volontà della guida suprema Alì Khamenei, l’ultraottantenne che su tutto ha l’ultima parola, dalle candidature di vertice fino a quanta parte del corpo deve coprire il volto e il corpo femminile. Ebrahim Raisi era dunque personaggio in simbiosi perfetta, anche se casuale, con le necessità e le urgenze repressive del regime nell’ultimo biennio: per prosciugare con violenza il dissenso dell’impavido movimento “Donna, vita, libertà” (centinaia di morti, migliaia di incarcerati per mano della “polizia morale”, stupri, torture, forche in azione, decine di intellettuali finite e finiti nel terribile carcere Evin a Teheran), e contrastare anche le spinte autonomiste-indipendentiste di alcune minoranze (Kurdistan, Beluchistan). Per attraversare tutto questo mare di terrore Raisi era il navigatore perfetto.
Lo era anche per assecondare le strategia dei “Guardiani della rivoluzione”, il potente braccio armato della “guida suprema”, da 100 a 120 mila combattenti (in Iran l’esercito ha ruolo comprimario), “Stato nello Stato”, controllore di buona parte dell’economia del paese, architetto di quella strategica “mezza luna sciita”, o comunque pro-Teheran, con cui la Repubblica ha organizzato focolai a propria difesa, dall’Hezbollah libanese, ai filo-iraniani irakeni, alla guardia nazionale siriana, agli houti yemeniti sentinelle dello stretto Bab-el-Mandeb che introduce al Mar Rosso, e naturalmente ad Hamas nell’inferno di Gaza, in parte essenziale eterodiretto da Teheran. Non per nulla israeliani e americani hanno operato letali attacchi selettivi proprio contro i suoi leader più influenti e in costante missione nei territori alleati: dal generale Qasem Soleimani ucciso a Bagdad, al comandante Reza Zahedi colpito a Damasco.
Nell’Iran ufficialmente in lutto, ci potrà dunque essere relativa e contenuta guerra per una successione che comunque verrà alla fine dettata da Kamenei e dai Guardiani. Ma non ci sarà vuoto di potere. Non a caso l’insistere sulla “continuità” istituzionale è stata la prima preoccupazione nell’iniziale dichiarazione della Guida suprema, quando più nulla faceva ormai sperare che il capo dello stato fosse sopravvissuto alla sciagura aerea.
Fra le nebbie, garantiscono gli esperti, non finirà anche la stabilità del regime. Che proprio ora deve temere come non mai la tentazione dell’attacco preventivo da anni sognato da Israele (e finora spenta da Washington), tentare di dotarsi dell’arma nucleare (non mancherebbe molto), consolidare l’alleanza con Russia e Cina, che hanno velocemente incorporato l’Iran degli ayatollah, in cerca di protettori, nel cosiddetto “Sud globale” che intendono pilotare in blocco contro ‘l’egemonia’ occidentale. Scelta di Mosca e di Pechino per cui ci sarebbe da scandalizzarsi, visto ciò che la Repubblica islamica rappresenta contro lo stato di diritto e contro “il corpo delle donne”. Ma a che servirebbe? Mosca e Pechino non sono per nulla interessati alla sostanza dei governi amici o da reclutare. La democrazia, anche internamente, non è certo nelle loro agende. E del resto, non fu un capo della Casa Bianca (Lyndon Johnson) ad affermare che “i generali golpisti e dittatori sud-americani sono dei figli di puttana, ma sono i ‘nostri’ figli di puttana”? Amen.
Nell’immagine: Ebrahim Raisi
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